LA CARNIA

prime notizie

 

Ci manca ogni notizia per determinare quale fosse la vita religiosa e come si svolgesse nella Carnia, dal dominio longobardo in poi, per alcuni secoli. Le prime notizie sono relative ai domini e diritti che possedevano i grandi istituti ecclesiastici del territorio patriarcale.

Nel maggio 762 i tre fratelli longobardi Erto, Marco ed Anto. dividendo i beni che possedevano in Friuli fra i due monasteri di Sesto al Reghena e di Salto sul Torre che avevano fondato, assegnarono ad ambedue in comune un monte in Carnia, di cui non dicono il nome, ed a quello di Salto (ch'era di monache) fra gli altri possessi anche: «casas in Carnia vico Ampicio idest casa iohanni et Marciolo», ed anche: «Et casis in Carnos in Vincaretum». Continua poi il documento ricordando le località di Ramaceto e Daunino (Naunina presso Paluzza?), ma a non potrei asserire con sicurezza che fossero in Carnia.

Dallo stesso archivio di .Sesto esce un altro documento, con cui nel gennaio 778 un tal Masselio duca donava a quei monaci «villam unam in montanis que dicitur Furno» con tutte le pertinenze, tra le quali anche miniere di ferro e di rame.

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Andiamo ora un poco più a monte ancora.

Nel 1254 il patriarca Gregorio diede in feudo retto e legale a Rogerino di Milano suo ostiario sette mansi nel territorio di Forno ch'erano stati di Warnerio d'Artegna, traditore della chiesa d'Aquileia.

Nel 1255 Enrico di Mels donò al patriarca Gregorio, in favore della chiesa d'Aquileia il monte dov'era costruito il castello di Forno ; che entrò così in proprietà della chiesa stessa.

Nel 1299 o nel 1300 Francesco di Leonardo di Socchieve consegnò al patriarca la sua parte nel castelliere di Socchieve e ne ebbe da lui l'investitura. E poi il 1° ottobre 1300 lo stesso Francesco ebbe 1'investitura del Castello di Forno , con la signoria è con altri diritti, quale feudo d'abitanza e coll'onere di pagare ogni anno dieci marche alla chiesa d' Aquileia. Ma questa concessione Francesco dovette ottenerla a caro prezzo da Pietro e Rolando di Zagarolo, nipoti del patriarca Pietro, col promettere di pagar loro cento marche di denari aquileiesi ed obbligando a ciò tutti i suoi beni.

Ottenuta quest'investitura, il 20 novembre 1300 a Forni di Sopra, Francesco promise agli uomini di Forni di Sopra e di Sotto di conservarli nelle condizioni nelle quali erano sotto Leonardo suo padre, e sotto Arnoldo q.am Mainardo, di non molestarli «de cruenta, de robo, sfortio ac omnibus aliis rebus», di lasciarli liberi nell'eleggere i merighi e nel rendere ragione secondo le usanze antiche. Sanzionava così i privilegi di cui godevano quegli abitanti.

Dopo Francesco il patriarca invcstì della signoria di Forni Gualtiero q.am Ermanno di Nonta, contro il quale si presentarono a protestare, il 18 maggio 1320 a Gemona davanti il patriarca Pagano, Giovanni meriga ed i delegati di Forni di Sotto per l'arbitrario esercizio del garrito; giacché costui non accettava le sentenze pronunciale dai giurati del luogo e voleva devoluti gli appelli al giudizio dei suoi vassalli e servitori. Fu sentenziato che Gualtiero non dovesse molestare quei di Forni, ma rendere ragione secondo gli usi locali; l'appello doveva essere vicendevole fra i due Forni e poi in terza istanza doveva andare al patriarca; e fu pure determinata la competenza del meriga. Con ciò l'autorità di Gualtiero era molto limitata; egli pensò bene il 20 ottobre 1326 di cedere ogni suo diritto sui Forni ad Ettore Savorgnano per 150 marche aquileiesi. E così cominciò il dominio feudale dei Savorgnani nell'alta valle del Tagliamento, i quali la tennero, rispettando i diritti consuetudinarii dei due luoghi e facendosi rappresentare da un gastaldo, eletto dalla vicinia e confermato da loro, ai quali esso prestava giuramento. Accanto al gastaldo stava il meriga, designato allo stesso modo, che presiedeva la vicinia.

Non furono però quei signori gli unici padroni nei Forni: sappiamo che per l'anniversario del patriarca Pagano (+ 1332), fu comprato lassù il censo di sei marche, che sì doveva assegnare alla chiesa del castello di Udìne per le spese. Altri signori carnici e friulani avevano pure possessi lassù.

È notevole che nel 1361 Tristano e Francesco del fu Federico di Savorgnano confessarono al patriarca d'avere in feudo i castelli di Forni di Sopra e di Sotto , col garrito, muta ed altri diritti. Si parla dunque di due castelli.

I due Forni non fecero propriamente più parte della Camia, ma della Signoria che i Savorgnani possedevano in Friuli, e che essi allargarono poi ancora sempre. I due luoghi stavano sotto la sorveglianza del capitano di 0soppo, che li visitava ogni anno per vedere come era amministrata la giustizia. Infatti quanto ai delitti il meriga era tenuto a darne notizia al capitano per la punizione; ma quanto alle cause civili il meriga stesso procedeva nelle forme sopra accennate; quanto poi agli interessi amministrativi era la vicinia che col meriga ed il gastaldo decideva sul buon governo dei boschi, sui pascoli e sulle malghe, sull'assestamento delle strade, sullo sgombro delle nevi, sugli acquisti e vendite di utilità comune ed anche sugli interessi delle Chiese. In vicinia si designavano gli ufficiali, i procuratori quando le liti ed i negozi lo richiedevano, e si condannavano gli abusi che fossero invalsi.

La signoria savorgnana durò sino alla caduta della repubblica di Venezia; meno un breve periodo di tempo, perché l'imperatore Sigismondo il 24 maggio 1413 la diede al cavaliere Venceslao di Spilimbergo «Fornum superiorem et inferiorem contrate Carnee» con tutti i diritti, punendo così Tristano e Francesco di Savorgnano che si erano ribellati. Ma piantatosi fra noi nel 1420 il dominio veneziano, anche i due Forni insieme cogli altri beni confiscali furono restituiti ai Savorgnani. Però il dominio di costoro non fu sempre pacifico, specialmente quando durante i secoli XVI e XVII tentarono di obbligare i montanari di Forni a concorrere alla costruzione della fortezza di Osoppo; da queste prestazioni di opere li esonerò però il luogotenente veneto di Udine e la Signoria.

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Di minori, anzi minime, vicende di quegli anni, non è il caso qui di far memoria; tuttavia non è inutile ricordare, che il 1692 fu un anno disastroso per la Carnia, causa le terribili innondazioni, le quali, dice lo Spinotti, hanno innondato strade, edificii, chiese, devastate intiere ville e diroccati terreni al monte ed al piano (1). Furono spesi

per ripari 170.000 ducati; e per quei ripari la repubblica concesse pure per 28 anni l'esenzione del dazio della macina, che rendeva ducati 1321 all'anno (2). Non fu questa la prima innondazione in Carnia, perché già nei secoli XIV e XV si parla della necessità di costruire e munire roste a Tolmezzo, ma rimase memorabile, perché per uno scoscendimento della montagna rimase distrutta la villa di Buarte in quel di Socchieve presso ai confini con Forni di Sotto.

Ed ora, al termine ormai della lunga evoluzione delle libertà ed autonomia della Carnia (3), sarà utile tentare di farci un'idea esatta delle forme con cui i nostri maggiori venivano governati.

 

La Carnia propriamente detta amministrativamente era divisa in tre corpi:

il primo era costituito dalla Comunità di Tolmezzo e dalle ville che da essa direttamente dipendevano (dal 1392 in poi) ed erano: Sauris, Sappada, Forni Avoltri, Timau, Cleulis ed Alesso. Scrive il Porcia: «a Tolmezzo vi sono buone case e cittadini assai ricchi, è il capo della Cargna, ha una muda detta gastaldia che si vende ogni tre anni all'incanto dal clarissimo signor luogotenente [del Friuli]».

Il gastaldo dunque aveva più che altro un ufficio fiscale; spettavano però ancora a lui altri antichi redditi e dare l'investitura dei feudi, censi e livelli della Carnia; rappresentava la maestà del principe; assisteva insieme coi giudici di Tolmezzo ai giudizi civili e criminali in prima istanza; giacché la comunità era stata investita sin dal tempo patriarcale de mero et mixto imperio et omnimoda potestate gladii. A Tolmezzo non si teneva vicinia, come nei comuni rurali, c'era invece un Consiglio, variabile da principio nel numero, ma che fu poi fissato a ventun membri. Questi consiglieri erano eletti il 1 gennaio nella chiesa di san Martino dall' Arengo, composto dei capi famiglia; ma di fatto un po' alla volta l'ufficio di Consigliere rimase riservato ai più istruiti e denarosi del luogo, e l' Arengo non faceva che approvare le designazioni già fatte delle persone. Il consiglio poi nel suo seno nominava ogni anno il Cameraro (amministratore), i Provveditori, il Capitano del Quartiere e anche tre Giurati per tutto il Circondario. Questi giudicavano in Tolmezzo insieme col gastaldo; ma in aprile tenevano annuo placito nei singoli quartieri, per decidere sul posto le liti qualora ci fossero di mezzo interessi di chiese, vedove ed orfani; e si fermavano in ogni Decania, cominciando da Incaroio e continuando poi per Paluzza, Zuglio, Amaro, Gavazzo, Verzegnis, Invillino, Raveo, Mediis, Gorto (Comeglians ?) e S.Canciano (canal Pedarzo). Le ville annesse a Tolmezzo non avevano voce nel consiglio della Terra; dovevano però contribuire al suo bilancio; ciò che del resto era per loro più un vantaggio che un danno. Nei bilanci poi dell'intera gastaldia si tenevano due contabilità distinte, secondo che la comunità di Tolmezzo v'era compresa, oppure no. C'erano dunque delle spese che dividevansi in quattro, cioè secondo i quattro quartieri, altre che dividevansi in cinque parti, se oltre i quartieri vi partecipava anche la Comunità di Tolmezzo; ma in ambo i casi le parti erano sempre eguali;

il secondo era costituito dai quattro quartieri nei quali e ra divisa la Carnia: il primo quartiere era quello di s. Pietro; spiritualmente era soggetto alla prepositura di s.Pietro di Zuglio e comprendeva 36 ville divise in due raggruppamenti (4): di sopra e sotto Randice, dal nome del rio Randice che si getta nel But sopra Piano d'Arta ; il secondo era quello di Gorto con 57 ville colla pieve di santa Maria (di Luincis); il terzo era quello di Tolmezzo colle quattro pievi di Tolmezzo, Gavazzo, Verzegnis, san Floreano (Illegio-Incaroio); il quarto era quello di Socchieve colle tre pievi di Invillino, Socchieve ed Enemonzo. Ognuno dei quartieri si eleggeva un Capitano che durava in carica un anno e governava il suo quartiere (il capitano del quartiere di Tolmezzo, come vedemmo, era eletto dalla sola Comunità). In ogni quartiere c'era pure un paio di Decani coll'incarico di esigere e versare al gastaldo il ricavato delle decime dei dazii, dei censi, degli affitti che spettavano al dominio, e sopratutto di denunziare i reati che si fossero commessi. Ogni villa ( vicus ) costituiva un Comune, in cui tutti i capi-famiglia, riuniti in vicinia, trattavano gli interessi collettivi in piena libertà e senza controllo, ed alla fine dell'anno designavano la Banca per l'anno nuovo; eleggevano cioè il capo-comune chiamato Meriga (in qualche villa l'ufficio di meriga toccava per turno ai singoli capi-famiglia) e due o più assistenti chiamati giurati. Ogni villa mandava il suo meriga e, più tardi, con lui anche un giurato alla Comandarìa cioè adunanza dei rappresentanti d'ogni singolo quartiere, dove si eleggeva il capitano e si trattavano gli interessi generali del singolo quartiere, il quale era tassato in maniera costante nella ripartizione degli oneri che toccavano all'intera regione. Quindi dovea poi la Comandarìa decidere quello che spettava ad ognuno. Nel quartiere di Tolmezzo, dove non c'erano le adunanze di pieno quartiere si suppliva colle adunanze parziali delle tre pievi di Gavazzo, Verzegnis, Illegio;

il terzo era costituito dai gismani feudatarii : «sono diverse famiglie abitanti in quelle ville, ove anticamente erano fabbricati sopra colli 23 castelli» scriveva ai suoi tempi lo Spinotti. Lasciando in disparte i 23 fantastici castelli, si trattava di ministeriali, obbligati tutti al servizio militare a cavallo con lancia e balestra e che perciò erano stati gratificati con feudi, ma senza alcun diritto di giurisdizione sul territorio. In questo essi rimasero indietro ai ministeriali del Friuli; però anch'essi ricevevano l'investitura dei loro feudi direttamente dal patriarca prima, poi dal luogotenente veneto, e da lui soltanto venivano giudicati. Le ville dove si trovavano, secondo lo Spinotti, questi gismani erano: Ampezzo, Agrons, Alesso, Bellotorto, Emonia della Muina (!!), Forni, Frata, Feltrone, Invilino, Monaio, Moscardo, Noiariis, Chiesteons, Cella, Cesclans, Castelnuovo, Dumblans, Nonta, Raveo, Socchieve, Sompcolle, Sutrio, Verzegnis, Zuglio. Eleggevano proprii capitani e facevano anche talvolta speciali adunate a Caneva presso Tolmezzo. Erano eguagliati agli altri feudatarii della Patria, liberi ed esenti da ogni prestazione personale, con l'uso delle armi da fuoco ed altre preminenze, accuratamente elencate poi nel 1722 dal Sindacato di Terra ferma, quando cioè la loro importanza sociale era da tempo scomparsa. La loro prestazione bellica o taglia com'era detta, fu di tre elmi (cioè nove uomini a loro spese), uno per ciascuno dei tre gruppi: Zuglio, Luincis, Nonta; mentre al preposito di s. Pietro spettava in tempo di guerra di dare un elmo ed alla comunità di Tolmezzo solo due elmi ed un balestriere. Moggio per suo conto doveva dare tre elmi e una balestra.

Nel parlamento della Patria erano rappresentati soltanto il primo ed il terzo di questi gruppi. Ne abbiamo la prova sino dal 1306, quando troviamo che fu rilasciato salvocondotto per venire al parlamento: «al gastaldo, al consiglio e comune di Tolmezzo ed ai ministeriali della Carnia». Le ville della Carnia per amore o per forza stavano con Tolmezzo. Così fu sempre anche in seguito.

Quanto alle taglie di cui abbiamo fatto cenno, non si devono confondere colla milizia locale, alla quale partecipavano gli abitanti validi di ogni villa, secondo le ripartizioni decretate dalle Comandarìe dei singoli quartieri. Erano le cernide, che nulla avevano a che fare colla vecchia milizia feudale; e non formavano certo una milizia molto agguerrita. Una lapide che sta ancora al posto sul palazzo ex Garzolini ricorda l'opera del veneziano Bernardo Nani nel ridurre “sub militiae legibus,, la “ tumultuariam Carnorum cohortem,, nell'anno 1589. Questa riforma militare del Nani è in relazione con una determinazione del senato veneziano; il quale il 21 dicembre 1588 aveva stabilito che le cernide della Carnia fossero in numero di cinquecento, composte «di soldati archibusieri, non essendo al proposito le piche in quelle montagne». Dovevano essere comandate da un capitano eletto dal senato e di stanza a Tolmezzo; e non erano obbligate ad uscire dalla Carnia, né a fare altrove la loro mostre (riviste ed esercitazioni). Stabilì pure in quel dì il senato che i provveditori dell' Arsenale «debbano per questa volta solamente mandar 500 archibusi forniti di tutto ponto con li suoi fiaschi [per la polvere], e similmente 500 morioni, dal Luogotenente della Patria da essere consigniati a quelli [che] saranno descritti, con obbligo di custodirli sempre ben all'ordine, e renderne buon conto per consignarli di man in mano a quelli che dalla giornata saranno descritti in questo numero, come conveniente, li quali archibugi, e morioni siano pagati dalla casa dell'Arsenale con denari della "Signoria nostra». Non si parla qui affatto di cernide del Canale del Ferro, che avevano adunate e organizzate a parte.

 

 

(1) Nella chiave di volta di una delle porte di casa Gerometta di Paularo si legge l'iscrizione: 1692 | FU IL | DILU | VIO.

(2) dall'esenzione del dazio della macina furono dapprima esclusi i due Forni, perché non facevano parte della Carnia; poi godettero anch'essi del beneficio.

(3) Se noi poniamo mente alle libertà che gli abitanti del due Forni erano riusciti ad ottenere già alla fine del secolo XIII, dobbiamo concludere che alla fine di quel secolo, dopo la fondazione di Tolmezzo, l'organizzazione della Camia, nelle sue linee essenziali era compiuta; quello che s'aggiunse poi non fu che un completamento.

(4) La divisione fu fatta il 26 ottobre 1414 dal patriarca Lodovico di Teck per dissidi d'indole amministrativa, Paluzza rimase luogo di convegno per i comuni sopra, Randice, Arta per quelli di sotto ; punto di ritrovo per gli interessi comuni fu stabilita la fornace di Alzeri.

Da Notizie Storiche della Carnia (da Venzone a Monte Croce e Caporosso) di Pio Pachini, edito dallo Stabilimento tipografico “Carnia” di Tolmezzo nel 1927.

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