CARNIA

una regione di monti che si affaccia ad oriente nelle Alpi, dove affondano quattro considerevoli valli dette « canali » e vi dimora una gente d'antichissima origine.

 

Ad occidente della Carnia s'alzano maestose le cime che s'affacciano imponenti al confine, cui la Carnia contrappone i suoi gruppi di oblunghi e placidi monti, dalle ampie basamenta, dove si insinuano valli e valli e dove s'intrecciano boschi, pascoli e prati.

I verdi scialbi ed intensi si fondono in unico morbido tono che la distanza scolora e maggiormente addolcisce. Perciò Carnia è quel nome che significa quiete, fatta di luce e di spazio, non di piramidi e di abissi, ed è per questo che talune cime limitrofe, ove è concessa una breve infiltrazione dolomitica, restano spiritualmente in discussione ed appartengono meglio al carattere cadorino: una verità questa che muove dagli aspetti evidenti dell'ambiente e delle genti sue.

Dalle insenature dei monti, dai brevi altopiani, spuntano taciti borghi e sereni villaggi dagli aguzzi campanili, come Ovaro, Forni, Ampezzo, Arta, Paularo. Sopra i filoni dei boschi qualche nube sonnecchia ; lontano appare una pallida cima incrinata di verde.

Alla serenità del paesaggio si unisce un'austerità mitigata che si avverte appena.

I radi boschi di frassini e rovi, di pini è d'abeti, non riescono cupi, ma garruli e snelli come i soffi d'aria che accedono ai « canali » lenti e leggeri, venuti da lontano per librarsi in grembo al riposo.

Per queste valli le acque colano caute e perenni; il loro canto poco lungi si disperde tra le pietre disordinate degli argini e le macchie d'ontano.

Ovunque, tra le pennellate di verde, spuntano casolari e fienili edificati con pietre informi e poca calce arida ed ingiallita. Vi sovrasta un castello in legno dalle tavole diabete e di larice, che al sole arrossano, anneriscono, divengono d'un colore che non ha più età né data. E lentamente poi quelle assi si screziano, i muri si fanno asciutti e poi umidi a lungo calcati dalle nevi.

Oltre i limiti delle valli, nelle gole e sulle coste dei monti, vi sono le malghe, placidi alberghi pastorali nell'oasi silente del pascolo.

Nei fondali, tra i monti, l'estate diffonde un fragrante profumo d'ombra e di bosco, di ciclamino e d'arnica.

Sullo sfondo i monti approdano alla chiusa del confine con l'Austria, fatto di rupi dalla pietra pallida e grigia, muta e solitaria, che si erge a gruppi or snelli or massicci. L'estate vi distende sopra le brume, i veli opalescenti del solleone al di là dei quali le creste divengono azzurre e sognanti. Tra i valichi l'autunno incastra a lungo le nubi ad inumidire i lastroni.

Di là, tra quelle tacite creste, vennero i Celti che discesero forse guardinghi per le foreste ed attesero a valle la prima notte carnica.

Al desiderio di raggiungere le secolari distanze del passato che seguono ed antecedono l'era di Cristo, non rispondono che vaghi accenni dispersi nella nebbia; la lontananza è pervasa di incertezza ed essa assume comunque una forma, che la mente ed il sentimento avvertono traendo radice, illusione, verità, dalla finestra che tentacola e si profila, a volte consistente, nel velo dell'epoca crepuscolare.

All'intenso sforzo del pensiero che approda su pochi dati di fondamento e di calcolo, ecco delinearsi una lontanissima Carnia, ammantata di foreste che interamente coprivano le valli, ove l'abete ed il faggio si alternavano a rotazione in dominio quasi indipendente.

Per queste valli morbide di vegetazione correvano lucenti fiumi. Indubbiamente il biancore delle ghiaie si apriva ampio nei fondali, tenuto conto della libera defluenza delle acque, come delle sacche ed improvvise inondazioni che gli uragani provocavano, accumulando nei fondovalli lembi di boschi. E quelle acque, che normalmente oggi appaiono minuscole e quiete, spesso ancora d'autunno s'ingrossano e s'inturgidiscono; le correnti limacciose s'incrociano e s'ode, a distanza, il rimbombo sordo dei ciottoli che si rovesciano l'uno contro l'altro. Le piene dilagano ancora nei fondovalli e in esse rivive il ricordo di remote alluvioni. Né il verde è riuscito tutt'oggi a coprire la nudità dei fondali.

La vegetazione libera e non funestata doveva assurgere a proporzioni colossali (come lo provano monumentali relitti plurisecolari di faggio ancor vegeti sul monte Dauda). Questa pianta di frequente giganteggia nel passato e più di ogni altra diviene il simbolo della Carnia arcadica. « Bosch Blanch », la definirono i Carni con esattezza, poiché il tronco come le foglie sono piuttosto pallidi, in contrapposto alla cupa abetaia, che, giustamente, fu chiamata « bosch neri », bosco nero.

Documenti remoti sono concordi nel provare che i Carni furono pastori di greggi più che di armenti. Nei silenzi dei boschi pisolavano perciò taciti greggi.

Ai brevi spiazzi di pascolo primitivo vi seguirono col tempo i prati « le taviele ». Ciò avvenne intensamente nel tardo e severo dominio di Venezia ('400), che, per le necessità marinare prese ad utilizzare largamente i boschi.

In quell'ambiente pastorale il costume era latente ed ogni segno di evasione verso un primitivo progresso era una scintilla che incrinava l'ancor grande solitudine.

Qualche strada, di secolo in secolo, divelse le valli a metà costa; gli orizzonti apparvero sensibilmente mutati, meno raccolti dal come apparivano dalle strade-sentiero che correvano lungo i torrenti.

Di là, per quei cammini, nel fondale tra i monti Sernio e Dauda, Col Gentile ed Arvenis, andavano e venivano i greggi e le poche mandrie nomadi che procedevano forse serrate, occupando costantemente il breve spazio nudo.

Non più una Carnia così arcadica, di solitudine, d'urla di pastori.

Solo rovistando talune vecchie carte lacere, ingiallite ed increspate, questa Carnia lontana dai colossali noci e dalle folte faggete, riapparirà per un momento, nello sforzo della mente, dalla fenditura di un'epoca sepolta.

A colorire intensamente il costume si profilò l'epoca aurea, il '500, un secolo che colse ancor caldi i bagliori dei caratteri per tramandarli più finiti all'epoca successiva.

Nella formazione del costume, oltre alle specifiche ragioni d'origine, ebbe notevole influenza l'oltralpe per le costanti relazioni intrecciate sotto stesse egemonie e medesimi feudi ancor prima del '500. Bene lo dimostrano gli ornamenti ecclesiastici di stile tedesco, quali le pitture e le pale d'altare, come resistenza di vocaboli tedesco-arcaici nel dialetto e la relazione inequivocabile dei tre termini Carnia - Carinzia - Carniola, aventi radice in comune.

Riflesso alla stirpe, a modularne la tempra nordica attribuendovi una sensibilità vagamente mediterranea, influirono nei secoli immigrazioni di ceppi dal sud: signori che pervenivano ad abitare i feudi e le ville, oppure fuggiaschi che riparavano tra i monti di Carnia.

Nell'ambiente più mite e solatio al di qua delle Alpi si fece largo comunque un proprio sentimento che produsse, a sé stante, in ispecie nell'arte, un proprio carattere.

L'arte popolare, coi suoi riflessi di raccoglimento, di austerità e di preghiera, si fece largo accanto al focolare che troneggiava su larghe pietre di silice. Pesanti borchie ne legavano gli alari. Vi attorniavano cassapanche in legno scolpito, ove posavano lucenti bronzi. Sulle pareti si allineavano filari di rami.

A quei tempi in Carnia non vi erano porcellane e maioliche laccate, ma unicamente stagni e rami vivissimi; in quel lucente, infuocato colore, la gente trasse il senso del brillante e dell'adorno, un riflesso ch'ebbe indubbia parte nella sensibilità delle impressioni.

Spesso quei rami venivano ammassati attorno alle fontane architettoniche, dove frotte di donne li rifacevano nitidi e brillanti; i mercati ne allineavano su misura lunghi banchi: caldaie, pentole, anfore e piatti.

Nella casa predominava maggiormente la figura della donna, un lato che l'immaginazione più facilmente rimuove per ricercarvi i sapori dell'epoca d' oro: donna dallo sguardo illuminato, lievemente indagatore, ove il tepore del sorriso pareva distendersi nell'aureo ciondolante scintillio degli orecchini tra le cupe chiome che un fazzoletto rapiva intorno al volto. Donna che rispondeva di sentimento buono e severo, che dolcemente si curvava sul focolare a rattizzare la fiamma. Dai suoi fianchi pronunciati flettevano lunghe gonne vergate di cenere e di violetto; un giubbetto ne azzimava la figura, dando spicco alle floscie maniche dal latteo tessuto. Quest'abito coloriva intensamente le sagre (feste dei borghi e dei villaggi), i mercati e le sacre processioni, quelle processioni che si snodavano per la quiete dei boschi e delle valli.

L'uomo, una figura più rude, appare intento alla fatica dei boschi, alla cura dei bestiami, nell'opera di paziente artigiano del legno e della pietra, e torna a tarda sera dai boschi o sale dal greto dove rombano pesanti tronchi che le fluitazioni avvallano, destinati all'Arsenale di Venezia.

La vecchia Carnia vide infatti per secoli solcare i suoi fiumi con le zattere che approfittavano sovente del disgelo e alla cui guida erano addetti dei robusti montanari « i zatàrs », fluvionauti, che composero una loro canzone:

 

Jo zatàr, zatàr gno pari,

il gno von l'ere zatàr,

o' larin a la furtune

da lis monz insin al mar.

 

Traduzione: Io sono fluvionauta, fluvionauta era mio padre e il mio avo lui pure fluvionauta; tenteremo la fortuna dalle montagne al mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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