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PLAN DI PLARON
di Nereo Pavoni "Pele"
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IL BIDELLO - I |
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Tra le “grandi” figure istituzionali predisposte alla socializzazione di noi giovani promesse, come il maestro, il prete o cappellano, indirettamente anche il maresciallo dei carabinieri come funzione deterrente, era una figura “minore” quella che aveva lasciato un segno più marcato, non nella sostanza, ma nel ricordo di una stagione movimentata ma favolosa: il bidello delle elementari. Era un signore in età già avanzata, non molto rapido nei movimenti per una mutilazione ad una gamba risalente ad una battaglia carsica nella Prima Guerra Mondiale, che si era preso volontariamente, oltre al mandato comunale di tenere la scuola e dintorni in ordine perfetto, anche il compito ingrato di raddrizzare le gambe ai cani. Come fossi finito anch’io, all’incirca verso la terza elementare, fra quella decina di prediletti che il bidello costantemente curava con vera passione missionaria, non ero riuscito a capirlo, anche perché, probabilmente, non me lo ero mai chiesto. Improbabili, col senno di poi a quella tenera età, anche eventuali rimozioni psicologiche, ingombranti e poco in sintonia con il mio stato sociale oltremodo plebeo. Che la mia e la nostra discendenza non fosse direttamente messa in relazione con uno stinco di santo di qualsiasi categoria ,era un giudizio popolare che sentivo con frequenza quasi giornaliera: quello che, più tardi , la moderna psicologia infantile definiva un bambino vivace, ai tempi nostri era, con una sentenza più diretta e inappellabile, un “lazzarone”. Anche se sul verdetto finale non c’erano incertezze, invece su il perchè o percome, esistevano due grandi scuole di pensiero, una mistico-religiosa che riconduceva tutto a Lucifero, quello vero degli scantinati profondi, l’altra scientifica e laica che si appoggiava alle leggi infallibili della genetica.
Tornando alle gambe da raddrizzare, il compito del bidello, forte dell’unanime consenso popolare, si concentrava nell’attimo fuggente in cui noi pargoletti dovevamo per forza varcare l’enorme portone della scuola. Largo più di tre metri, con il guardiano praticamente immobile, sarebbe stato un giuoco da niente passarlo a velocità supersonica, fintando magari dalla parte diversa da quella più promettente se...se come madre natura insegna, fra predatore e preda alla fine si ristabilisce sempre un equilibrio naturale, che in questo caso specifico si materializzava con una verga di nocciolo perfettamente stagionata e omologata dal corpo insegnante. Il signor bidello la usava con una maestria invidiabile, pratica concreta di pedagogia manuale. Le regole del gioco erano poche , semplici e rigidamente rispettate da tutte e due le parti: noi cercando di passare il confine con meno danno possibile, per lui invece colpire solo dalla cintola in giù e sempre da tergo. Va da se che incidenti non voluti capitavano qualche volta, come beccarsi una vergata sullo stinco o, ancora più fastidiosa, sul ginocchio. Il dolore fisico era una costante più o meno ignorata, dato che anche nei nostri giochi infantili e fin troppo rurali le ammaccature, i tagli , le escoriazioni ed altre simili ferite erano ben visibili sulle parti scoperte del corpo: dal colore vermiglio del sangue appena rappreso e via, via alle innumerevoli croste di stagionatura diversa, fino alla macchia rosata di una di queste, che cadendo,aveva assolto al suo ciclo biologico.Se il dolore fisico non era un grande problema, ben più grave era la diminuita capacità di muoversi con la consueta dinamica, che nella nostra primitiva e privata scala sociale, poteva portare ad una notevole perdita del prestigio raggiunto. Sportivamente però si riconosceva al bidello una totale buona fede: se il suo sporadico sbagliare era umano, il nostro perseverare tenace era inevitabile, come una legge universale che distribuiva con intelligenza i diversi ruoli per non fermare la continuità positiva dell’evoluzione sociale. Che figura avrebbero fatto i bravi bambini tutto chiesa e scuola se non avessero avuto lo specchio negativo della nostra esistenza? Loro erano buoni e coccolati solo in relazione ad un ”valore” contrario: mancasse il brutto, il bello si troverebbe in un limbo uniforme,noioso e privo di qualsiasi stimolo competitivo.
C’era, naturalmente, anche un sistema indolore per aggirare il problema: bastava inquadrarsi nel plotone della propria classe che si formava nel grande cortile antistante alla scuola. Prima, seconda, fino alla classe quinta , con il maestro o la maestra in testa, si marciava con diverso stato d’animo, sotto lo sguardo deluso del bidello, verso l’aula scolastica e di una nuova giornata dagli esiti incerti. A ciò va aggiunta la mia innata idiosincrasia per la perfezione delle rigide forme della geometria che già mi creava un sacco di problemi con il libro di testo, duro, indigesto, molto più forte della volenterosa e quanto inutile mediazione dell’insegnante impegnato in una guerra persa in partenza. Probabilmente anche questa forma geometrica e rigida del plotone con la sua vaga, ma intuibile, disciplina militare mi rendeva istintivamente sospettoso. Forse erano le soluzioni troppo facili che mal si conciliavano con il mio spirito ribelle, o il gusto della sfida come droga quotidiana per portare su la temperatura corporea un paio di gradi, chissà, anche l’inconscio desiderio di primeggiare almeno in qualcosa.
La giornata più memorabile di tutta la mia scolarizzazione incominciò proprio con una lezione di geometria. Io, che di solito in classe preferivo non intromettermi nelle vicende più grandi di me e, quindi, dall’ultimo banco riservatomi per anzianità - fra l’altro il migliore alla pari della cattedra per tenere tutta la situazione sotto controllo - di solito facevo i cavoli miei , arrabattandomi con progetti mentali da realizzare nel tempo libero. Quella volta, contro tutte le regole della prudenza apprese in passato, su una constatazione di un greco mi pare, che “la retta è la via più breve fra due punti,” sostenni ad alta voce che i nostri antenati montanari dovevano essere proprio un branco d’imbecilli se tutte le strade e i sentieri del comune non erano altro che una serie continua di curve.
Un amico coetaneo due classi più avanti e che quindi non aveva assistito alla disputa, vedendo le mie guance più arrossate del solito, mi chiese speranzoso se avevo vocalizzato pubblicamente l’opinione che entrambi avevamo sulla madre del maestro. Nonostante il gonfiore, per fortuna simmetrico, e un certo intontimento che per un paio di giorni mi creò qualche problema nell’orientarmi anche geograficamente, non sentivo un rancore particolare per il maestro, era piuttosto quel maledetto greco che mi stava sul gozzo e la speranza d’incontrarlo un giorno mi aiutava non poco a superare la crisi.
I miei, ma anche i genitori degli altri compagni,si mantenevano abbastanza neutrali su queste dispute fra noi e l’istituzione scolastica, forse con leggera propensione per il bidello. E piagnucolare a casa per queste faccende e simili non era consigliabile se prima non era stata ben calcolata la distanza di fuga, una variabile tratta da una complessa equazione, con molti vettori in campo, come la velocità esponenziale del braccio, l’accelerazione progressiva delle gambe, l’angolo di tangente eccetera eccetera , e..... la certezza della porta aperta in tutta la sua massima dimensione. La resistenza alla corsa era per fortuna sempre dalla nostra parte, da non dimenticare però la balistica con le sue leggi gravitazionali e paraboliche, perché finiva sempre con qualche zoccolo di legno massiccio che volteggiava nell’aria. La filosofia campagnola che si celava dietro l’impegno pedagogico, anche se si distanziava notevolmente dalle teorie della Montessori, aveva una sua logica: cercar di pareggiare il credito di sanzioni da noi accumulate. I miei sapevano con certezza che alla fine della giornata una man di bianco me l’ero guadagnata. Come? in molti modi, i quali poiché ormai i paesani si erano scocciati di pellegrinare a casa mia per raccontare le solite storie, restavano per di più sconosciuti. In fondo i nostri “delitti” non erano poi così esecrabili, mancava del tutto la gratuita forza vandalica della generazione che ci aveva preceduto, solo che nessun orto o frutteto, durante la maturazione, restava privo di una nostra visita periodica. Erano poi gli isolatori di ceramica dei pali della luce che avevano una vita relativamente breve, per i pimperi di granito sopra il mezzo chilo che li mandava in frantumi. Ed era proprio questa gara di abilità sassaiola che stabiliva o modificava la scala gerarchica della nostra associazione. Fra l’altro avevamo un codice etico che proibiva, pena l’isolamento totale, qualsiasi forma di crudeltà inutile verso animali domestici e non. Va da sè che rane e trote, le uniche prede che si potevano prendere con le semplici mani - le lumache erano lasciate ai pensionati - non si sentivano del tutto tranquille da questa nostra rara qualità morale. Erano poi gli strumenti agricoli, come gerle, rastrelli , carriole ed altro che misteriosamente sparivano e venivano magari ritrovati dopo qualche settimana ad un paio di chilometri dal loro ambiente naturale. Anche il raccogliere i tipici zoccoli di legno di un’intera contrada, calzature che le donne usavano in stalla, del tutto simili nella forma e nel colore, così come per l’odore, e che venivano lasciati fuori dalla porta della stessa - come si vedeva nei film americani nelle sequenze con camere d’albergo – e il farne un bel mucchio in qualche angolo nascosto e non distante, era una variante dei nostri passatempo. Questi per se non aveva un’eccessiva carica criminale, ma il riappaiare gli zoccoli aveva già incrinato solide amicizie e ravvivato antichi e sopiti rancori fra i diversi casati. Capitava anche, con un poco di fortuna e a debita distanza, di assistere a queste dispute dove l’abbondanza d’aggettivi qualificativi aprivano inediti squarci biografici d’antenati più o meno lontani e, servendosi a piene mani di termini zoologici, si tracciavano pedigree di rara bellezza. Era anche merito nostro se questa preziosa memoria storica non andava a spegnersi in qualche meandro del vivere quieto.
A quei tempi il vocabolo “socializzazione” era da noi praticamente sconosciuto, non però la voglia o meglio l’istinto di socializzare. La frase che sentivo con più monotona frequenza era: “Ora ti insegno io l’educazione!” Per la verità le classi più basse, la maggioranza, al posto di “educazione”usavano il termine “creanza”. La cura nel metodo e nelle intenzioni, era sempre la stessa, solo che, oltre la noia di sentire sempre la solita frase, mi dava fastidio anche quel velato senso megalomane di vendere la pelle dell’orso ancora prima d’averlo preso. Avessero almeno usato il condizionale, che fra l’altro nel nostro dialetto era molto frequente. Lo dimostrava una frase di un mio lontano parente, reduce di guerra anche lui, che quando il tasso alcolico nel sangue gli saliva sopra il livello normale, amava ripetere la frase:“Se avessi avuto uno che mi ricaricava il fucile avremmo vinto la guerra”. E avendo fatto la campagna di Grecia e quella di Russia si riferiva sicuramente alla seconda guerra mondiale. La perfetta forma grammaticale e la grandiosa modestia dell’ “avremmo” non finivano mai di stupirmi e s’imparava molto di più fuori dalla scuola ufficiale. La mela di Newton e la sua teoria sulla gravità ci faceva un poco sorridere quando Carletto, un coetaneo che cercava di aggregarsi a noi senza averne la stoffa, cadeva regolarmente dal melo almeno un paio di volte a stagione, provando sulla propria pelle gli effetti dell’attrazione terrestre. Anche lo studio del peso specifico e la resistenza dei vari materiali, s’apprendeva dalla pratica quotidiana: la cartella scolastica dai quattro ai sei chilogrammi, solo di tara s’intende – ma, a pensarci bene, anche al contenuto cartaceo non si poteva dare un sostantivo diverso- era in genere costruita con legno di faggio e, in casi più fortunati, di frassino, non più leggero, bensì molto più resistente per l’uso multifunzionale a cui era sottoposta: slitta d’inverno, scudo, arma intimidatoria e mezzo trasporto di vari animali come rane, maggiolini, piccole serpi o altra fauna compatibile con le dimensioni della stessa. I libri e quaderni erano solo un corpo estraneo da trasportare giorno dopo giorno, dove l’inutilità era più fastidiosa della fatica, tanto succedeva di rado che a casa venisse aperta, e se succedeva , il commento degli adulti era laconicamente sempre lo stesso: “ Sarà morto il Papa!” Ed erano i compiti serali non fatti con il tema d’italiano in classe le cause principali delle tremende depressioni che non davano tregua agli insegnanti più acerbi e ancora ingenuamente posseduti dal fuoco della missione educatrice. Gli altri, le vecchie volpi, si erano gia rassegnati alla forza del destino crudele, ma godevano almeno di uno stipendio rispettabile e un enorme prestigio sociale che si trasmetteva automaticamente ai loro rampolli. Una legge non scritta ma scrupolosamente rispettata era quella di non cercare conflitti con questi coetanei che, prigionieri com’erano nella loro corazza di perbenismo dinastico non suscitavano alcun sentimento d’invidia. Piuttosto il contrario: dannati ad essere i primi della classe dovevano sudare tre volte più di un comune mortale. Gia l’abbigliamento accurato era la loro cella trasportabile che li obbligava ad una andatura a zic-zac molto comica, con salterelli innaturali e lo sguardo rivolto sempre a terra per la paura di finire con i piedi in una pozzanghera o, peggio ancora, di calpestare una volgarissima merda di vacca che era, si può dire, un materiale abbastanza comune e disseminato abbondantemente sulle strade comunali. La nobiltà obbliga.
Probabilmente, per loro, era anche l’unica occasione per elevare di un minimo il tasso di adrenalina nel sangue, un ormone che era invece per noi molto importante e da tenere, più dell’insulina, costantemente a livelli medio-alti. Solo che, stimolare una produzione continua non era sempre molto semplice ed anche la nostra fantasia anarcoide aveva i suoi limiti. I brevi periodi di vuoto creativo, con conseguente apatia, erano per di più visti come il probabile inizio di una malattia fisica. Ma la salute non tardava a tornare. |
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IL BIDELLO - II |
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Succedeva anche, non spesso, di ricevere un aiuto insperato, come la volta che il nostro Guardiacaccia, per la verità uno psicologo non molto raccomandabile, ci minacciò, se sorpresi a rubargli le ciliegie, di spararci con la doppietta caricata a sale al posto del piombo. Era, ma lui non lo capiva, un fantastico invito ad un pranzo di nozze a base di frutta. Se fino a quel momento nessuno si era interessato delle sue ciliege anche perchè la qualità non era una delle migliori - l’unica seduzione il primo tratto del tronco, tre-quattro metri privo di rami, che, senza scala, era sempre una sfida alla nostra abilità di primati - ora l’impresa con la insolita variante schioppettate, diventava più appetitosa delle ciliege stesse. Che rapporto poi avesse il signore in questione con i suoi ciliegi, ma non solo lui, non si riusciva a capirlo, dato che questa frutta non aveva nessun valore commerciale, per la mancanza di un mercato ricettivo e per la difficoltà della raccolta stessa che, a venti metri dal suolo, non era raccomandabile alle persone gia fuori dall’età puberale. Difendere le mele come riserva vitaminica per i lunghi mesi invernali aveva una logica comprensibile, ma le ciliege che avevano l’abitudine di maturare tutte in un paio di settimane e, in mancanza di soldi per lo zucchero per fare marmellate, non venivano neanche raccolte nei pochi casi dov’erano a portata di mano. Noi invece un rapporto l’avevamo: organico e simbiotico. Organico perchè, dato che a Carletto era tassativamente proibito salire oltre tre metri d’altezza e quindi era costretto ad aspettare sotto l’albero i rametti carichi di frutta che arrivavano dall’alto, si faceva una sorta di potatura primitiva. La simbiosi inconscia partiva da lontano. Nel nostro gruppo si confrontavano due scuole di pensiero contrastanti: inghiottire la ciliegia completa o sputare il nocciolo. A favore della prima tesi era il tempo a giocare il ruolo primario: lo sputare interrompeva il ciclo continuo, con perdita conseguente di massa ingerita; tesi seconda, più materia inerte nello stomaco, uguale meno spazio per la polpa. I primi sostenevano, anche se non esistevano documenti scritti o trasmissioni orali, che la prassi di buttare giù il tutto aveva lunghe tradizioni comprovate da testimonianze visive sparse in tutta la valle. Difatti si trovano ciliegi d’età diversa anche nei posti dove non esisteva nessuna ragione spiegabile con la logica agro-alimentare.La soluzione del mistero era nel nostro metabolismo che, per ragioni psico-fisiche con un consumo energetico elevatissimo, aveva la necessità di abbreviare il ciclo normale d’assimilazione. Se già il rapido processo chimico riduceva di molto il tempo digestivo, bere un sorso d’acqua dopo una grande scorpacciata di ”prunus cerasus” aveva un effetto cosi devastante che nessuna lavanda gastrica della medicina ufficiale riusciva a competere. Più o meno lontano dall’albero madre, dietro un cespuglio, se il tempo lo permetteva, si lasciava sul terreno una certa quantità di semi e, con un poco di fortuna, almeno uno aveva una reale possibilità di germogliare nella prossima primavera. Questa era la dimostrazione inequivocabile della vecchia tradizione seminativa e del rapporto simbiotico con il ciliegio. Restava il dubbio se il nostro “amico” avrebbe veramente sparato. Una sola volta arrivò a tiro utile, e manco a dirlo quando con una ingenuità incredibile avevamo lasciato il Carletto di guardia. Sbucò dal dietro da dietro una collina, con la doppietta già tirata giù dalla spalla e pronta per essere spianata, ma l’insolito spettacolo di un branco d’individui in fuga, che solo il parallelo terrestre troppo nordico escludeva categoricamente essere una grossa famiglia di babbuini, doveva averlo lasciato di sasso. Ribaltando la teoria darwiniana sulla evoluzione della specie, chi discende da chi, in pochi secondi anche l’ultimo scimmiotto, quello che aveva occupato il posto più alto, era sparito all’orizzonte inseguito dall’eco dei rami spezzati. Il bilancio delle perdite non era poi troppo alto: un paio di slogature alle caviglie, una lussazione alla spalla, qualche sette ai pantaloni e un solo disperso trovato però un paio d’ore più tardi sotto un cespuglio di nocciolo. Più grave la scomparsa di una scarpa, mai più ritrovata e probabilmente finita sulla parete di casa del guardiacaccia accanto alla testa imbalsamata di un capriolo come trofeo di una insolita giornata venatoria. |
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IL BIDELLO - III |
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Come tutti il “C’era una volta...” anche questa bella stagione volgeva al termine. Segnali premonitori appena percepiti lasciavano capire che era in atto un cambiamento progressivo e radicale nei comportamenti sociali . Ed era il mese mariano la cartina di tornasole che confermava la mutazione in cammino. Uno dei passatempi preferiti, che regolarmente ci dilettava il maggio religioso, era quello di aspettare fuori dalla chiesetta, con un bell’ omaggio floreale, le ragazze e ragazzine che uscivano dal rosario serale. Solo che le piante che si brandivano come clave non erano ancora in fioritura, anche perchè l’ortica ha la pessima abitudine di andare in fiore molto più tardi. Con l’involontaria complicità delle autorità religiose, che proibivano tassativamente al sesso gentile d’entrare in chiesa con i pantaloni, avevamo sempre a disposizione un numero sufficiente di gambe nude da massaggiare. Mancava naturalmente l’esplicito consenso delle interessate, ma erano piccoli dettagli che non azionavano i nostri freni inibitori piuttosto assenti. Gli agguati, irregolari nel tempo per mantenere l’effetto sorpresa, partivano da luoghi diversi e con tattiche variabili, per sfruttare al meglio il momento opportuno, ma l’effetto finale era sempre lo stesso: un festoso svolazzar di sottane inclusa quella del cappellano e lo starnazzare di gallinelle che si sparpagliavano urlando fra le vie del paese inseguite da un branco di selvaggi in miniatura e inseguiti a loro volta dalle madri delle prede, tutti uniti in un collettivo quarto d’ora d’agonismo sportivo, oltremodo salutare prima dello spartano desco serale.
Non puntare sul gruppo ma su una figura ben definita era il primo indizio che qualcosa stava cambiando sul piano ormonale. Iniziavano così i primi corteggiamenti di una pubertà appena accennata e, se la prescelta ancora non lo sapeva, al massimo dopo tre assalti consecutivi, anche la favorita capiva che non si trattava più di un fatto casuale e di conseguenza la velocità di fuga diminuiva in proporzione al gradimento della corte. Le varianti, come sempre nelle cose d’amore erano molteplici: il doppio corteggiatore, i tradimenti e le gelosie erano ricorrenze consuete e le salse che davano alla pietanza un sapore ancora più marcato. Sostituire le ortiche con un’altra pianta della famiglia della menta esteticamente simile nella forma ma priva degli effetti dermatologici indesiderati, era il passo successivo, con la conferma di un rimbambimento progressivo. Ne derivava gratitudine e sorpresa, anzi, prima la sorpresa del massaggio indolore, poi la gratitudine, e noi imparavamo che la riconoscenza non è sempre il prodotto di una azione buona ma, spesso, quello di una cattiva tralasciata.
Una stagione se ne andava con tutti i suoi problemi ma anche con tutte le sue certezze faticosamente apprese; si entrava in un terreno sconosciuto tutto da scoprire e ricco di promesse emozionali: la dura e bella stagione delle pene del pene. |
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IL BIDELLO - IV |
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Il momento più bello di tutta la giornata arrivava puntuale verso le nove del mattino quando si facevano uscire le vacche per il pascolo. Lasciate le pecore sole – se avevo ben calcolato la quantità di erba in un valloncello, le avrei ritrovate il pomeriggio più o meno nello stesso posto – mi precipitavo giù per le ripide pale per non mancare all’appuntamento con una velocità proporzionale al ritardo che pensavo d’avere. La stalla attaccata alla casera, una costruzione di legno alta due metri per quattro di larghezza che correva lungo un perimetro rettangolare di quaranta metri di lato, pareva un fortino con un cortile interno dove si raccoglievano le mucche liberate dalle catene. Le urla degli uomini si perdevano nella selva di muggiti e nel caotico suono dei campanacci della mandria impaziente di raggiungere i pascoli ancora umidi di rugiada. Sul cancello, solida e austera , dominava, sopra uomini e animali, l’imponente figura di barba Tita. Quando lui apriva finalmente il portale incamminandosi lentamente davanti alla mandria questa, per una imperscrutabile magia, perdeva tutta la carica d’impazienza per seguirlo quasi fosse il biblico Mosé in procinto di entrare nel Mar Rosso, certa di trovare un giorno di più la quotidiana terra promessa. Ora il suono dei campanacci, regolare e cadenzato, dava un senso di perfetta simbiosi fra uomo e una natura amministrata da tanti anni con intelligente rispetto. |
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....la volpe |
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LA VOLPE - I |
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Con assoluta precisione non avrebbe saputo dirlo, aveva solo il presentimento che questo accadesse con una certa regolarità: la moglie dopo essersi accertata con movimenti volutamente provocatori che lui fosse profondamente addormentato, scivolava silenziosa giù dal letto, si vestiva senza accendere il lume ad olio ed altrettanto silenziosamente infilava la porta della camera da letto per ritornare furtiva poco prima dell’alba. La prima volta se ne accorse per caso: svegliato dai tuoni e lampi di un violento temporale che sembrava avessero preso di mira la casa non aveva trova nessuno accanto a sé.Altre volte invece, pur nella profondità del sonno, era riuscito a percepire quello che accadeva intorno, ma per quanti sforzi facesse per svegliare anche le membra, gli impulsi nervosi si rifiutavano di lasciare il cervello lasciando il corpo come prigioniero in una misteriosa forma di catalessi.
Naturalmente il sospetto dominante, scartando tutta una serie d’improbabili motivi, restava il più ovvio: la moglie gli metteva le corna, ma “barba” Nani essendo nel profondo una persona schiva e tranquilla e non avendo altri elementi che confermavano questo sospetto, lasciava che le cose seguissero il loro corso senza grandi sconvolgimenti interiori e senza dar da vedere che era a conoscenza di queste fughe notturne. Pian piano però il tarlo della curiosità incominciò a roderli dentro con insistenza sempre maggiore occupandolo già per una buona parte della giornata finchè, alla fine si convinse che per riacquistare in minimo di serenità aveva l’imperativo bisogno della certezza.
La zuppa d’orzo come insolita variante alla consueta polenta serale e le gentilezze della moglie, o meglio la mancanza dei soliti mugugni, erano segnali che nell’inconscio si legavano alle notti di “giuda”. Pur avendo alle spalle una lunga e faticosa giornata da boscaiolo, questa volta era deciso a chiarire la faccenda. Far sparire la zuppa senza mangiarla era il problema minore: conoscendo la curiosità morbosa della moglie non gli fu difficile allontanarla con la scusa che dalla vicina di casa pareva che stesse uscendo un insolito e delizioso odore di pollo.
Superata la prima difficoltà senza troppa fatica, “barba” Nani era ormai sicuro che finalmente fosse arrivato il momento di chiarire un paio di cose, certo non aveva nessuna intenzione di fare delle scenate drammatiche troppo lontane dal suo carattere bonario e fatalista, voleva solo una conferma per mettersi il cuore in pace e vivere realisticamente anche con questa croce che, tutto sommato, non era sicuramente la più pesante di tante altre che era già costretto a portare.
Può darsi che, preso dall’emozione, al momento buono non riuscì a calcolare i tempi con il dovuto sangue freddo, o per eccesso di prudenza aspettò più del dovuto per alzarsi dal letto, fatto sta che dalla finestra sopra il portone non riuscì che a vedere solo le solite cose addormentate nella notte tranquilla, ma non la moglie che usciva e l’eventuale direzione che avrebbe preso.
No. Non era affatto convinto, al contrario: ripensandoci bene era ora sicuro che nessuno aveva lasciato la casa, da dove poi arrivava questa idea senza nessun supporto concreto per confermarla, non l’avrebbe saputo dire, ma gli restava sempre la possibilità di controllare. Difatti il paletto supplementare che sbarrava il portone dall’interno era al suo posto, com’erano indiscutibilmente chiuse tutte le imposte delle finestre, anche nell’altra stanza del pianterreno, un compromesso fra cantina e ripostiglio, non trovò nessun segno ne della moglie ne di un indizio che lasciasse intravedere una risposta logica.
Più perplesso che preoccupato controllò anche quei pochi spazi che potevano contenere una persona adulta come il sottoscale, la cassapanca, sotto il letto e, con una certa apprensione, anche dentro la piccola credenza sperando in questo caso di non trovare quello che cercava. Provò anche a sollevare la botola che comunicava con il fienile sovrastante pur sapendo che era stracolmo, ma neanche da questa via improbabile c’erano indizi convincenti. Si rese finalmente conto che stava solo consumando inutilmente olio, spense la lucerna e si rimise a letto rimpiangendo l’ottima zuppa d’orzo sacrificata con un’imperdonabile leggerezza.
Neanche la volta successiva riuscii combinare qualcosa di buono. Dopo un paio d’ore di lotta feroce contro la stanchezza, il sonno gli piombò addosso come una colata di bronzo fuso imprigionandolo dentro una pesante ed infrangibile corazza. Si svegliò all’improvviso qualche ora dopo senza una ragione plausibile e senza i torpori postumi del sonno interrotto, ma lucido, cosciente e preparato a reagire ad una minaccia che avvertiva imminente senza riuscire però a capirne la provenienza. Per qualche minuto rimase immobile trattenendo anche il respiro e cercando di richiamare alla memoria il segnale di pericolo che lo aveva risvegliato bruscamente, sperando nel contempo che il segnale in qualche modo si ripetesse. Qualcosa di acustico probabilmente, oppure lo spirito del padre morto in modo non molto tranquillo che, come si diceva, s’aggirava per la casa cercando in questo caso di avvertirlo di un pericolo in agguato? |
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LA VOLPE - II |
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“Barba” Nani che non era mai stato superstizioso in modo eccessivo, la sua natura stessa più portata a subire il destino che a provocarlo gli vietava ogni eccesso emozionale, queste storie di spiriti in generale, e quella del padre in particolare, le prendeva con sostanziale distacco, mantenendo una rigorosa equidistanza fra superstizione e la fede cristiana. Credeva in quello che toccava; il resto finiva sempre nel cassetto del possibile e non in quello del probabile.
Doveva però ammettere che gli avvenimenti che portarono alla morte del padre erano andati molto aldilà delle stranezze o dei capricci del destino. Allora aveva quindici anni e la notizia della disgrazia la portarono, tre mesi dopo, i paesani tornati in paese a passare l’inverno. Diventato così improvvisamente capo-famiglia, la primavera seguente con il primo scaglione di una ventina d’ uomini di tutte l’età, aveva dovuto prendere anche lui la tanto temuta via per Vienna. Erano otto-dieci giorni di camminino giù per le strade della Carnia, su per il tarvisiano, la Carinzia e fino alla capitale ausburgica con un sacco di poche cose in spalla e il timore di un mondo sconosciuto.
Era consuetudine portare i pivelli fin davanti la sede della ditta dove si era quasi certi di trovare lavoro e salutarli con la frase “qui ti ho portato, e qui ti pianto” non per cattiveria o malavoglia, ma per convinzione che servisse un salto improvviso nell’acqua fredda per incominciare al meglio la vita da adulti. Sbrigate le pratiche burocratiche senza particolari difficoltà, con un pragmatismo che faceva gli interessi d’ambo le parti, il giorno dopo era di nuovo in viaggio verso le regioni montuose dei Carpazi.
Prima di partire aveva dovuto promettere solennemente alla madre che avrebbe visitato la tomba del padre per deporre un mazzo di fiori e recitare almeno una preghiera che alla moglie li era negata. Fortuna volle che la zona dove la ditta viennese lo aveva destinato non fosse molto lontana dal piccolo paese dov’era sepolto il padre. Dopo tre mesi, la prima domenica che non lavorava, in compagnia di un lontano parente un poco più anziano e pratico dei luoghi, si mise in cammino. Tagliando per i boschi di mezza costa evitando il sali-scendi delle vallate, non erano più di una ventina di chilometri. Arrivarono alla baracca di un’altra squadra comprendente anche alcuni paesani che la polenta del mezzogiorno, ancora nel paiolo, mandava già un profumo molto invitante. Il tempo di salutare e buttar giù in fretta un paio di bocconi e già erano in cammino verso i “luoghi” delle sciagure.
Dalla dimensione del ceppo non era difficile rendersi conto di com’era grossa la pianta. Sempre dal ceppo, per gente del mestiere, vi poteva costatare che il lavoro era stato fatto da persone che sapevano usare gli attrezzi; la tacca che doveva dare la direzione di caduta, considerando che il vento arrivava solitamente da nord-ovest, era stata fatta in modo perfetto, e anche dai segni dell’accetta si vedeva che erano entrati più di un terzo dentro il tronco come prescriveva anche il buonsenso, il perché la pianta, quando la sega aveva raggiunto il punto di rottura, si fosse inclinata nella direzione voluta poi, quasi avesse cambiato idea, girandosi su se stesa ricadere dalla parte opposta, non lo capivano neanche quelli che aveva passato una vita intera nei boschi. Due rustiche croci a qualche metro di distanza segnavano il punto dov’erano periti i due fratelli boemi, proprio i due che avevano eseguito l’ultima ed anche definitiva operazione.
Aperta un’inchiesta alla buona dai responsabili della ditta, era stato accertato con la testimonianza di diversi operai che quando il caposquadra con tre boscaioli esperti stavano ragionando come affrontare il problema di questo straordinario gigante, passò di lì una signora in età già avanzata e vestita da povera contadina, fatto insolito e molto raro, che, in un dialetto poco comprensibile e probabilmente di derivazione romena, aveva inveito contro di loro pronunciando frasi minacciose più che nel tono che nelle parole incomprensibili, ma nessuno era riuscito a dare un senso logico alla protesta. Tutti erano però d’accordo su una cosa: la parola “sette” in romeno era stata inequivocabilmente pronunciata. Il Nani questa storia la conosceva ormai a memoria dai racconti sentiti molte volte durante i mesi invernali, ma risentirla sul posto dove erano accaduti i fatti, l’impressione che ne derivò era molto maggiore.
Neanche duecento metri più in basso sulla destra, la terza croce. Sfuggendo al controllo dei quattro operai la stavano accompagnando lungo il leggero pendio, sempre la stessa pianta “maledetta”, gia mondata dai rami, forse per l’enorme peso non più controllabile, incominciò a rotolare sempre più veloce man mano che la pendenza si faceva più ripida, travolgendo tutto quello che trovava sul suo cammino compreso il caposquadra che in quel momento stava risalendo la china, per andare poi a fermarsi dietro a due grossi abeti che riuscirono a resistere all’urto tremendo.
Ai quei tempi le teleferiche erano ancora quasi sconosciute e per trasferire i tronchi fino al fondo valle si usava un sistema molto semplice quanto efficace. Scelto un canalone naturale che scendeva dalla montagna da disboscare, man mano che le squadre salivano ponevano dentro lo stesso, a forma di spina di pesce, i tronchi ben spellati. Nelle giornate di pioggia, che rendevano lo scivolo più sdrucciolevole, si buttavano giù le piante abbattute e accumulate nelle varie stazioni di carico. La differenza tra questo scivolo e gli altri, addetta degli anziani, era l’insolita lunghezza e la pendenza che in due punti era quasi una caduta libera, due terribili moltiplicatori di velocità che lo rendevano estremamente pericoloso. Scesero in fila indiana fino alla terza stazione dove lo scivolo, dopo un falsopiano di qualche decina di metri, faceva una curva a sinistra prima di affrontare l’ultimo rettilineo che andava a spegnersi a fondovalle. Era proprio qui che la “maledetta”- l’avevano battezzata proprio così – uscita come una meteora dalla curva sfiorando il ragazzo comandato a buttare secchi d’acqua quando, a causa dell’attrito, la curva si asciugava, aveva sbattuto di coda contro uno dei pochi alberi lasciati per la riproduzione, prendendo una traiettoria sbilenca e andando ad uccidere un’altro operaio che si era riparato dietro un’altra pianta. Ormai era chiaro a tutti quanti che non si trattava più di una serie di coincidenze sfortunate, difatti tutte e quattro le vittime erano presenti all’incontro con la misteriosa signora della settimana precedente, ma credere al malocchio e farlo credere alla direzione della ditta appaltatrice erano due cose diverse. Bene o male la “maledetta” si trovava gia nel piano ed era un capitale economico da non buttare per discutibili superstizioni anche se dovevano ammettere che una cosa del genere non era mai accaduta.
Arrivata alla segheria su un carro trainato da due cavalli, sembrava che ormai la catena delle disgrazie si fosse definitivamente interrotta, ma quando il padre di Nani, assieme ad un collega, si stava accingendo a sciogliere le corde che la tenevano immobilizzata sul piano del carro, cedette improvvisamente, proprio dalla sua parte, il mozzo della ruota anteriore seguito a brevissima distanza anche dall’altro, quello posteriore. Per il resto non servivano altre spiegazioni superflue: il ragazzo poteva immaginare benissimo la tragica fine del padre e del compagno.
Ora la “maledetta” era lì per sempre immobile in mezzo al piazzale della segheria: saldamente fermata da quattro enormi catene di ferro, le più grosse che si erano potuto trovare, fissate con otto paletti conficcati profondamente nel terreno, non avrebbe più potuto fare dei danni. Prima di essere condannata a marcire aveva colpito per l’ultima volta: spezzata la sega a nastro che stava per ridurla in tavole, questa con una tremenda frustata aveva decapitato di netto l’operaio che manovrava l’impianto. I conti tornavano con l’enigmatico e tragico numero “sette” che era stato raggiunto.
Restava un mistero dentro lo stesso mistero; dall’inchiesta interna fatta dalla ditta risultava che tre delle ultime non erano presenti all’incontro nel bosco con la misteriosa signora, e che l’ultima non era stata uccisa direttamente dalla maledetta.
Il camposanto ai piedi di una collinetta, senza cipressi e mura perimetrali, pareva il cimitero di una guerra lontana e dimenticata. Cespugli di noccioli ed altri arbusti fra le sepolture davano un senso più naturale ed accettabile della morte, tanto più vicina ai cicli perenni e immutabili della natura quanto lontana dal culto funerario della tradizione cattolica con i suoi monumenti marmorei e ammonitori. Sei tombe allineate come capitolo conclusivo della tragedia; mancava quella di suo padre che come aveva sempre preteso, nel suo testamento vocale, che almeno da morto voleva stare in solitudine. Trecento metri sopra il cimitero al centro di una radura e sotto un albero di susine selvatiche, finalmente la tomba del padre: un mazzo di fiori raccolti durante il cammino e la promessa alla madre era stata mantenuta.
Rivivendo ora nei ricordi, dopo più di venti anni quest’ultima scena gli venne il sospetto che forse il genitore, non essendo stato sepolto in terra consacrata, poteva anche essere un motivo di questo vagare irrequieto della sua anima senza pace, ma questo era un terreno che poteva rivelarsi fin troppo scivoloso, addentrarsi nei misteri dell’occulto non era la sua vocazione, e poi non c’erano segnali che confermavano presenza di un’anima errabonda. |
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LA VOLPE - III |
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Nella profonda tranquillità della notte non si sentiva neanche il più piccolo rumore che lasciasse pensare a pericoli imminenti, solo un vago presentimento, una minaccia imponderabile anche se non direttamente nelle vicinanze. L’ansia che gli cresceva dentro il cervello stava gia occupando il posto della ragione: doveva muoversi per forza se non altro per allentare la tensione già ad un livello insopportabile. Presa la lucerna “barba” Nani si mise in movimento.
La mucca girò appena la testa verso la luce fioca che era apparsa sulla porta continuando a ruminare indisturbata, non invece le tre pecore: credendo fosse arrivata l’ora del governo, incominciarono, come tutte le mattine, il solito e petulante concerto di belati. Nella stalla pareva che tutto fosse nell’ordine consueto. Molto sollevato e respingendo dolcemente con la mano l’agnellino che tentava di sgusciarli tra le gambe, “barba” Nani chiese svelto la porta dietro di se; anche fuori era tutto tranquillo e in pace con l’universo. Le poche case del borgo, macchie scure contro quelle un po’ più chiare delle montagne sullo sfondo, s’indovinavano appena nella notte senza luna.
Tempo buone per le volpi …..
La cinquantina di metri che lo separavano dal pollaio, malgrado il buio e le gambe che li tremavano dall’emozione, li fece in un baleno. Troppo tardi: già prima d’entrare nel piccolo recinto vide le prime piume bianche sparse sul terreno. Tre galline giacevano stecchite sul terreno, quattro per fortuna, se di fortuna si poteva parlare, ancora vive anche se inebetite dalla paura, due invece se le era portate. Con il lume in una mano e le tre galline nell’altra, un macigno enorme sulle spalle, tanto languore nello stomaco, barcollando come un ubriaco, se ne tornò a casa con la coda fra le gambe, sbattè con rabbia le tre galline sul tavolo della cucina e si rimise a letto cercando inutilmente di riprendere il sonno che non veniva. Altro che corna, questo si che era un colpo basso del destino.
Assopita un poco la rabbia per l’offesa ricevuta, la volpe, nella sua mente, l’aveva già uccisa una decina di volte con metodi sempre più crudeli e raffinati, gli restava una sorta di risentimento che in parte riversava sullo spirito padre per la poca chiarezza dei suoi avvertimenti e in parte sulla moglie che lo aveva lasciato solo in una delle ore più tristi della sua vita.
Stava rimuginando per l’ennesima volta gli avvenimenti della notte quando, più che sentire, avvertì un leggero soffiod’aria sul viso entrata dalla porta aperta della camera e subito dopo l’infilarsi furtivo di una persona nel suo letto.
“La prossima volta non mi scappi!” Questo fu l’ultimo pensiero prima di riprendere finalmente il sonno.
Un mese trascorse senza che qualcosa d’insolito venisse a disturbare l’ordinario corso della vita quotidiana; anche la profonda ferita delle galline, involontariamente sacrificate alle dure leggi della natura, si stava pian piano rimarginando, certo, qualche fitta al cuore si faceva ancora sentire, ma “barba” Nani sapeva che il tempo è il medico migliore per queste pene ed anche l’unico del resto.
Il forte desiderio di rivincita era diventato una benvenuta variante nella banalità del ripetersi quotidiano, non una rivincita con la prima volpe, ormai questa partita era chiusa con una sconfitta non più rimediabile, ma con l’altra “volpe”anche se non aveva in mano elementi concreti per un’accusa precisa.
Aspettava la prossima fuga notturna con un misto d’apprensione e curiosità non sapendo quello che si poteva nascondere dietro tutta la strana faccenda; da una parte il timore di trovarsi davanti ad una situazione nuova senza la minima idea sul comportamento da tenere, dall’altra il bisogno imperativo di conoscere la verità e chissà, anche l’inconscio desiderio di ficcare il naso in un vespaio dei più sconsigliabili.
E venne la tanto sospirata notte della verità.
Con la scusa di cenare all’aperto fece sparire la minestra che, secondo i suoi sospetti, conteneva una dose abbondante di valeriana o qualcosa di simile. Forte dell’esperienza delle fughe passate, questa volta “baba” nani non si fece prendere impreparato e appena la moglie uscì dalla stanza, senza perdere tempo a vestirsi, con la camicia e pantaloni sotto il braccio, gli zoccoli in mano, riuscì a seguirla a breve distanza. Dall’angolo dell’ultima rampa di scale, contrariamente a quello che si spettava, la vide entrare in cucina invece di dirigersi verso il portone di casa. Dalla porta restata aperta forse volutamente, riuscì a seguire, grazie al diffuso chiarore che entrava dalla finestra, tutta l’incredibile scena: allungata la catena del focolare per tutta la sua estensione e facendone una specie di cappio sufficiente per infilarsi dentro fino alla vita, afferrando poi con le mani la stessa sopra la testa e tirandosi su senza apparente fatica, il corpo della moglie incominciò a dissolversi appena raggiunta una certa altezza.
L’ultima scena, quella più impressionante, era data dai piedi che per un attimo sembravano indecisi a seguire il resto del corpo, poi un silenzio assoluto ed inquietante come se anche il lieve sospiro delle cose si fosse fermato. Per un momento pensò di essere dentro un sogno senza una logica apparente, ma la realtà fra il serio e il buffo era invece presente nella sua stessa immagine: mezzo nudo con i piedi scalzi e senza la forza di prendere un decisione qualsiasi. Ora si sentiva desolatamente preso per i fondelli anche perché aveva preso coscienza che lui in tutta questa faccenda era solo una figura di contorno; la “volpe” messo nel sacco un’altra volta dimostrando forse volutamente il suo potere, contro il quale lui non aveva niente ma proprio niente da contrapporre. |
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LA VOLPE - IV |
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Erano passati molti anni dall’ultima volta che ero andato a fare visita alla “gnà” Gloria, certo la incontravo spesso per le vie del borgo ma non era certo questo il momento per farmi raccontare le sue storie. Sull’avventura di “barba” Nani per la verità ero un po’ scettico, fra l’altro era un mio bisnonno e un suo parente indiretto essendo figlia della cognata, d’altra parte lei era riconosciuta da tutti come una persona per bene con un cuore grande come montagna e certamente sincera. Nulla era cambiato nel tempo da quando ancora ragazzino portavo le ricotte per farle affumicare. Essendo l’unica casa rimasta con il vecchio focolare, tutti approfittavano della sua disponibilità, a parte ora le mensole vuote nulla era cambiato: il pavimento di pietra, il focolare al centro della stanza, le tre panche a ferro di cavallo molto basse per difendersi dal fumo, il bronzino dell’acqua e qualche stoviglia alla parete, neanche le mensole per le ricotte appese al soffitto, ed ora inutili, erano state levate, chissà, forse in attesa di un tempo che non tornerà più. Più o meno così immaginavo la cucina di “barba” Nani dov’era successo il fattaccio.
La mia non era una visita di pura cortesia, ma lei nella sua grande saggezza gia lo sapeva. Mi accolse con il solito calore come se fosse stato ieri l’ultima volta che ero andato a trovarla. In paese aveva anche una fama, più volte verificata, di buona veggente e, per un’ ulteriore conferma, prima che incominciassi a spiegarle la ragione della mia visita, mi disse di stare attento perché stavo per mettermi dentro in grossi problemi.
Plan di Plaron. Mancavano solo tre giorni al primo giovedì del mese ed era un’occasione che non volevo perdere, anche per non perdere la faccia mancando ad una promessa fatta ad un gruppo d’amici, una quindicina fra valligiani e turisti: la promessa di portali sul posto dove si radunavano le streghe di mezza Europa. Volevo sapere qualcosa di più su questa leggenda, ma oltre alle informazioni cercavo anche qualcos’altro, un salvacondotto, una sorta di protezione, un qualcosa che mi desse la sicurezza di evitare un pericolo che non escludevo del tutto.
Mi disse di non andare, anche perché gli altri mi avrebbero in ogni modo lasciato solo. L’unico che aveva tentato di violare questo luogo, tanti e tanti anni prima, la aveva pagata cara. Aveva poco più di venti anni e quando di prima mattina ritornò al paese i suoi capelli erano diventati tutti bianchi come la neve, ma anche dai lineamenti del volto pareva invecchiato di molto, ma il peggio fu che non riuscì più a ragionare come un cristiano.
Morì qualche anno dopo portando nella tomba il segreto di Plan di Plaron.
Io avrei rischiato molto di più: non solo volevo mettere il naso in faccende che non mi riguardavano, ma tentavo pure di ridurre un mistero conservato per secoli, in una banale attrazione turistica. Mi dette solo un consiglio se veramente non volevo rinunciare: al primo segnale di qualcosa di strano, girare i talloni e darmela a gambe con buona lena.
La vecchia lampada a petrolio, ancora di quelle quadrate con un lato fatto a porticina per accendere lo stoppino, mi pareva più adatta e più affidabile di una pila moderna. La misera luce che produceva era comunque più che sufficiente a mostrarmi il cammino, ma che, anche senza di essa, non avrei avuto problemi perché tanto bene conoscevo il percorso. Era almeno una sorta di compagnia, poiché, come previsto, con scuse diverse, mi avevano lasciato solo. Fino al pianoro di Duns, terra neutrale, non avevo particolari timori, ma appena imboccato il sentiero che portava su al pianoro, i primi sintomi della paura di tanto coraggio, incominciarono a farsi sentire con il classico languore di stomaco, il cuore che andava al massimo e un tremolio alle gambe che facevano fatica a reggere il corpo. Insolite nubi in una notte serena passavano veloci sopra la cima degli alberi; lampi senza tuono segnavano tracce brevissime nell’aria illuminando per un attimo la serpentina del sentiero in salita. In lontananza una luce d’incostante intensità filtrava a volte attraverso il bosco diventato rado, lasciando supporre un falò di dimensioni notevoli.
La strana figura, appoggiata con la schiena ad un grosso abete dell’ultima curva che segnava la fine della salita, mi era apparsa per un attimo alla luce di un fulmine, riproducendo nel vero una classica scena già vista in un film dell’orrore. La debole luce del lume non era sufficiente ad illuminare la scena, solo alla distanza di meno di un metro incomincia a distinguere i primi particolari anatomici, ed era veramente una strana figura. Pareva un essere mummificato senza linfa vitale, anche se, da come modellava un ramo con un rudimentale coltello, si poteva pensare il contrario.
Non sollevò neanche un secondo lo sguardo per guardare l’intruso che gli metteva un lume sotto il naso, come se anche questo fosse un fatto scontato. Neanche dai lineamenti del volto, certamente maschili, si poteva dargli un’età, ma il suo silenzioso messaggio mi era molto chiaro: di qui non si passa senza irreparabili danni. Non era però questo che mi aveva messo addosso una paura tremenda, era invece l’impressione che per un attimo mi fossi trovato davanti ad uno specchio che rifletteva la mia immagine posticipata di qualche decennio. “Barba” Nani il medium prescelto? Ne ero fermamente convinto.
Chissà, dov’era finita la lucerna! Dire che la discesa, anche se avevo perso la percezione del tempo, era stata fulminea, mi sembrava un aggettivo più riduttivo che esagerato. Solo alle prime luci del borgo mi fermai per qualche minuto per far calare la pressione arteriosa che doveva essere salita a livelli pazzeschi, ora però erano i crampi tremendi ai polpacci che non mi davano tregua. Al diavolo la lucerna che pur avendo un piccolo valore affettivo, era sempre sostituibile.
La visita alla “gna Gloria” diventava obbligata, forse per chiederle scusa, o forse, come ultima speranza, per cercar di capire. Ne uscì un dialogo che non strapazzò troppo le corde vocali, si comunicava per di più con gli occhi e con silenzi eloquenti e mi fece capire chiaramente che in certi casi era molto meglio non capire.
Che fosse l’ultima volta che la vidi non potevo saperlo, ma con il senno di poi avrei potuto intuirlo. Nel congedarmi mi disse che aveva un regalo per me, l’ultimo, e calcando su questa parola, da una mensola annerita dal fumo, prese una vecchia lucerna porgendomela non senza uno sguardo di benevola ironia. Qualche tempo dopo suonò a morto la campana della chiesetta. Dicevano anche il nome della persona che ci aveva lasciato.
Per me, ma forse solo per me, non era morto nessuno. |
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IN MALGA - I |
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Gli spallacci dello zaino, e non sono neanche due ore che cammino, mi fanno già un male dannato mordendomi ferocemente le spalle fino all’osso; sembra pero´, anche se da qualche anno sono fuori allenamento, che gambe e fiato tengano più di quello che una quarantina di sigarette giornaliere lasciassero sperare. E ho dietro di me il tratto di strada più duro: ancora un centinaio di metri e la mulattiera sassosa s’immetterà finalmente distesa sul pianoro di Duns.
L’aria pungente dell’alba di questo fino ottobre mi ha messo addosso una insolita sensazione di liberta cosi totale che da anni non sentivo più, tanto che mi sembra cosi nuova ed incredibilmente godibile in questa casuale riscoperta. ma non credo che sia solo l’alta percentuale d’ossigeno frizzante a provocare questo mio stato d’animo, probabilmente e anche il muovermi in una dimensione geografica piena di stimoli che mi riconducono ad un passato non altrimenti riscopribile, sepolto come era da “ere” successive, a rendermi cosi sereno e riconciliato con me stesso. Ed ad ogni stimolo visivo c’è il ritorno struggente di una situazione già vissuta: il vivo ricordo di un volto umano, di un rapporto sociale, di un passato che ora rivivo con una emozionalità molto più intensa di quella realmente vissuta. Il suono irregolare dei campanacci, la quasi religiosa processione di uomini e animali che salgono in sintonia, l’amico sudato, il richiamo continuo e benevolo ai ragazzi e ai vitelli sempre fuori fila, l’andatura pesante e faticosa delle vacche già gravide, le donne vestite rigorosamente di nero come portatrici di un dolore antico e socializzato. E cammino sereno in compagnia di questi cari fantasmi.
Sulla sinistra, poco prima della fine del bosco, dalla mulattiera si stacca un sentiero che s’arrampica irto e deciso verso un nome dal suono dolce e misterioso: Plan di Plaron. Un brivido non di freddo mi scorre giù veloce lungo la schiena e il fantasma della ”gna Gloria” si fa ancora più caro e presente degli altri.
La luce che si fa progressivamente più intensa lascia capire la forza del giorno che avanza, ma anche la fine del bosco; e finalmente posso drizzare la schiena camminando orizzontalmente sul piano.
Il pianoro di Duns è ora molto diverso di come l’avevo nei miei vecchi ricordi: il prato di un centinaio di metri di larghezza per tre-quattrocento di lunghezza che la falciatura annuale del fieno lo teneva al riparo dall’invadenza degli alberi circostanti, è ora un’unica distesa di piante nane. Scacciato qualche secolo prima dalla mano dell’uomo, ora il bosco si sta riprendendo il suo antico diritto, e i piccoli larici, già dorati dall’autunno avanzato, sono stranamente più numerosi delle altre specie di piante proprio in una altitudine dove il faggio e l’abete sono i dominatori assoluti. Sono bastati pochi anni d’abbandono per cancellare un duro lavoro di bonifica e la prèsenza visiva di generazioni e generazioni; restano le due casette appoggiate alla montagna che dalla mulattiera, sopra la punta degli alberi, riesco appena ad intravedere le macchie scure dei loro tetti. Ed è un altro stimolo che scava veloce dentro l’archivio passivo della lontana memoria riportando alla luce un mondo sepolto dal tempo: rivedo la modesta struttura murale di due semplici stanze, a sud la cucina e a nord la piccola stalla, sopra, tutto rigorosamente in legno, un unico stanzone che serviva da fienile e da camera da letto , il tetto non molto spiovente per la limitata quadratura del coperto ma con le grosse travi portanti capaci di sostenere senza pericolo i metri e metri di neve che l’inverno ha l’uso di portare da queste parti. Rivedo la spartana semplicità della cucina con il tipico focolare al centro, il piccolo tavolo all’angolo e due panche legate ad elle attorno al focolare, la mensola con le poche stoviglie scheggiate e il calendario appeso alla parete annerita dal fumo. Rivedo soprattutto la vita legata a questi dodici fogli di carta che la cooperativa alimentare del luogo regalava, con due litri di vino e cinque kG di pasta, ogni fine dicembre a tutti i suoi soci. Ma era il calendario il regalo più gradito: la fila di santi sulla sinistra che regolavano una profonda esistenza spirituale, le varie figure di lune sulla destra che nel loro gioco di calante e crescente, fuori da ogni valore astronomico incomprensibile e lontano, erano precisi punti di riferimento per tutte le faccende dell’anno. Si pregava guardando da una parte e si seminava e si raccoglieva guardando dall’altra.
Anche il sentiero che dalla mulattiera porta alle due casette non si riesce quasi più ad individuarlo, resta un solco appena accentuato coperto da un fieno giallastro e vecchio di anni: reso duro nei secoli dai pesanti passi montanari ha resistito finora all’assalto delle sementi, ma aggredito lateralmente dalle radici caparbie dei giovani larici, sta per cedere anch’esso alla violenza vitale della natura.
Neanche le due casette ormai abbandonate a se stesse potranno resistere ancora per molto all’assedio del bosco, e sarà stranamente un sambuco, venuto da chissà dove, la prima bandiera di rivincita su cumulo di sassi e di legno marcito. Ed è un altro pezzo di mondo a me caro che se ne andrà, anche se forse lo sto idealizzando un po’ troppo, probabilmente per averlo vissuto nella sua dimensione meno dura, o forse per contrapporlo ad un altro che mi è troppo freddo ed ostile.
La gola vista dall’alto in tutta la sua profondità e lunghezza, sconvolta dalle forze tremende della natura, ha in se quel fascino particolare delle cose selvagge e pericolose. Gia una sorta di sottile richiamo mi mette in testa delle strane idee che potrebbero risolvere in un attimo tutti i miei crucci. È la cicca però, con una lunga parabola impressa dall’indice e dal pollice, a finire nel vuoto. Con le natiche raffreddate dal sasso su cui sono seduto e i muscoli delle gambe induriti dalla pausa e dell’aria gelida che sta salendo a folate dal basso, mi devo quasi staccare con forza dal gusto dell’orrido. Quasi con un gesto di ribellione mi rimetto lo zaino in spalla: se non ci saranno altre sigarette ad interrompere la marcia, fra meno di un’ora sarò alla malga ancora prima del sorgere del sole.
Lascio alle spalle il pianoro di Duns, i ricordi infantili e la mulattiera che si è spenta davanti ad un ripido canalone solcato dal torrente sassoso, e lo stesso che finora l’avevo sulla mia destra sprofondato un centinaio di metri giù nella forra me lo ritroverò sempre presente fino ai pascoli più bassi. Il greto non largo e devastato dalle periodiche alluvioni autunnali mi costringe a un percorso da labirinto con continui ritorni verso valle, o per evitare i grossi massi di cui il greto è scomparso, o per riprendere il sentiero che spesso perdo di vista. Anche il sottile strato di ghiaccio, infido e spesso invisibile, che ricopre i sassi più vicini al magro corso dell’acqua, contribuisce a rallentare il cammino, lasciando capire che quassù le temperature notturne sono già sotto lo zero.
Fra gli alberi del bosco che si fa sempre più rado intravedo gia il biancore dei pascoli coperti di brina: l’ultima “calada” ,quasi un muro verticale che sbarra la via e costringe il sentiero ad affrontarla con una serie ininterrotta di tornanti, un ponte di legno aggrappato ad un tratto di roccia scoperta e sono dentro i valloncelli erbosi che salgono dolcemente fino alla casera.
Dalla Francoforte finanziaria, ordinata, internazionale con il suo buon venticinque percento di residenti stranieri, ma anche simpaticamente provinciale nel senso più positivo della parola, aperta e tollerante, ben disposta ad integrare il nuovo senza perdere la propria identità, con una media di imbecilli razzisti ancora sotto la negativa percentuale fisiologica che purtroppo tutte le società producono, fino ai piedi del Clap-Savon il massiccio dell’alta Carnia che sovrasta la caratteristica costruzione alpina perfettamente inserita nella natura circostante, è un salto emotivo che fa battere il cuore ancora più della fatica di quattro ore di marcia forzata.
Una prima sensazione di ottimismo mi fa ben sperare. Forse dalla brutta crisi sentimentale, sofferta nella sua dimensione più masochista possibile per la mia pessima abitudine di prendermi troppo sul serio, si potrebbe anche tirar fuori qualcosa di positivo. È come se l’opportunistico istinto di sopravivenza stia riprendendo il sopravvento sul pessimismo degli ultimi mesi, lasciando vede una piccola luce alla fine del tunnel. Può anche darsi che tutto si risolva in un buon affare se non altro per il mio fegato tartassato, negli ultimi tempi, da dosi incredibili d’alcol. Due misere bottiglie di grappa sono ora l’unico sostegno morale per quattro mesi di programmato isolamento dal mondo civile.
I raggi del sole scendono lentamente la montagna colorandola di un tiepido giallo come una sfida nei miei riguardi. Credo che almeno questa gara sia ormai vinta, anche se salgo ormai scomposta dalla fatica, in dieci minuti sono alla malga ancora prima di lui. |
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IN MALGA - II |
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C’è odore di neve nell’aria, anche se la limpidezza del cielo si lascia presumere oltre lo spazio visivo, sento che qualcosa d’indefinito sta cambiando radicalmente la serena tranquillità dell’autunno, ed è soprattutto una sensazione olfattiva, come se la stessa composizione molecolare dell’atmosfera si fosse trasformata per portare l’annuncio della nuova stagione in arrivo. Misteriosi segnali hanno riattivato qualche cellula sopita della memoria mettendo in allarme inconsci meccanismi di difesa. Antichi timori, non razionalmente spiegabili se non come ataviche paure d’inverni duri e lontani, anche se vissuti solo attraverso i racconti dei nonni, si sono improvvisamente risvegliati cambiando completamente il mio stato d’animo nei confronti della natura circostante. Ora avverto con chiarezza che l’inverno in arrivo bisogna prenderlo tremendamente sul serio senza lasciarsi distrarre da pericolose ricadute sentimentali. Non basta la dispensa fornita e la grossa riserva di legna per sentirsi al sicuro, ma è anche importante uniformarsi allo spirito di resistenza passiva che la natura quassù mi pare abbia gia assunto.
Contrariamente dl solito, senza rendermene conto, questa mattina invece di salire ho preso il sentiero che porta giù sui prati di mezza costa. I faggi, sparsi a macchie irregolari in mezzo al folto degli abeti, si sono preventivamente del tutto spogliati ed anche i cespugli del sottobosco, aprendo ampi varchi alla luce, hanno perso tutte le foglie ed uno strato di esse, secche, soffici, fruscianti ma pure infide, ricopre il sentiero per tutto il suo percorso costringendomi a scendere in modo innaturale e ridicolo, strisciando i piedi di continuo per non perdere il contatto con la solida sicurezza del sentiero nascosto.
Scorgo la prima baita prima ancora di uscire del tutto dal bosco, le altre, sparse senza nessun ordine geometrico sulle irregolari pendenze dei prati, appaiono e scompaiono fra le macchie dei nocciuoli o dietro le gibbosità e gli avvallamenti del terreno in una serie di scorci e sequenze di pregevole fattezza fotografia. Di alcune ricordo ancora il nome del “casato” d’appartenenza, di altre invece non trovo nessun appiglio che mi possa aiutare. Già da lontano si possono notare i primi segni dell’abbandono: una porta mancante, qualche tetto scoperchiato, cespugli di more che hanno preso dimora attorno alle stesse, ma sono i piccoli larici che infestano i prati, non più falciati da qualche anno, che danno la misura di un mondo che cambia e perduto per sempre.
I guaiti di un cane che salgono da un boschetto giù sulla mia destra, sono i segnali inconfondibili di un segugio sulla pastura di un capriolo. Conosco questa battuta per averla fatta, nella mia breve carriera di bracconiere, un paio di volte. Ora il segugio ha cambiato registro, non più il guaire sulle tracce olfattive che le foglie secche e la mancanza di rugiada le hanno rese poco marcate, ma l’abbaiare furioso di chi insegue a vista. Se la parata va via dritta, come mi aveva insegnato il mio “maestro”, è sicuramente una femmina o un giovane capriolo, se invece è un maschio adulto farà sicuramente un paio di giri dentro la macchia. Sentendo la voce del cane che cambia d’intensità proporzionalmente alla distanza, posso immaginare dove i due si trovano e mi pare che i giri siano ormai tre. Dalla posta più alta, neanche cento metri sotto di me, l’uno-due della doppietta quasi simultanei salgono su lacerando prepotentemente l’aria, mi investono per un attimo per proseguire inarrestabili fino a frantumarsi dentro gli anfratti della montagna che li rimanda smorzati con una debole eco. L’abbaiare del segugio che per un momento si è fermato convinto della conclusione positiva, ora riprende più forte di prima. Sento la parata andar via veloce attraverso i prati di “Daguosas”, piegare giù verso il “Plan dal Riusonant” per uscire definitivamente dalla mia portata uditiva. |
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IN MALGA - III |
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Nevica ormai da qualche ora. Confermando i presentimenti della mattina, il tempo si sta mettendo in regola con le consegne della stagione. Verso mezzogiorno, arrivate silenziosamente da sud-ovest, uno spesso strato di nuvole ha coperto completamente il cielo trasformando radicalmente l’aspetto del paesaggio. Poco prima dall’imbrunire gia i primi fiocchi. Ancora rari e leggeri, scendevano lentamente come per assaggiare il terreno. Ora nevica con metodo costante e con irremovibile convinzione. Una fitta e morbida barriera senza confini annulla lo spazio nel dilatarlo all’infinito e mi fa sentire, anche in modo fisico, tagliato fuori d’ogni possibilità o desiderio di resa. Stasera la veglia sarà più lunga e tranquilla del solito, perfino le fiamme del focolare mi sembrano più calme e più calde: ed è una pace che respiro nell’aria come se anche il ritmo del tempo si fosse finalmente quietato.
Qualcosa che sul momento non riesco ad afferrare mi deve aver improvvisamente svegliato. Dal quel poco di lucidità che riesco recuperare, posso dedurre che ho dormito solo qualche ora e quindi la mezzanotte dovrebbe essere passata da poco. Verso le dieci, lasciate smorzare prudentemente le fiamme del focolare e data l’ultima occhiata al tempo fuori, la neve aveva raggiunto già il mezzo metro abbondante, mi ero infilato nel sacco a pelo sprofondando in un’immensa e soffice nuvola bianca. Il chiarore appena percettibile che sale tremolante dalla tromba della scala come se il fuoco si fosse inspiegabilmente ravvivato, non dovrebbe essere la causa del mio improvviso risveglio. Ora sento anche il tipico scricchiolio del legno aggredito dalle fiamme, se ha preso fuoco la parete di tavole più vicina al focolare, credo che mi troverò dentro in grossi pasticci.
Solo a metà scala, ancora indaffarato con mani tremanti a stringere la cinghia dei pantaloni, mi accorgo che tutta questa fretta è superflua: sette - otto persone silenziose e tranquille, anche fin troppo, sono sedute immobili attorno al focolare. Il primo impulso è quello di girare i tacchi senza farmi notare come fossi io l’intruso e non viceversa. Troppo tardi: una tizia, e pure carina, o almeno sembra nella penombra, sta guardando dalla mia parte. Turisti un po’ matti. Senza scarpe e mezzo svestito, scendere gli ultimi scalini è come salire sul patibolo. Certo che mi siedo se sposti il culetto, vorrei ben vedere chi è a casa di chi. Anche il velato sarcasmo, di una voce con un lieve accento veneto, mi pare una provocazione. Quella sulla mia sinistra è pure una donna, almeno dal seno che sotto lo spesso maglione si lascia supporre di notevoli dimensioni. Da un po’ più lontano arriva anche una mano con l’offerta di una sigaretta che accendo con un il più grosso tizzone del focolare. E la buona occasione per dare un’occhiata girando la testa di lato per evitare di bruciarmi il sopracciglio. Come sospettavo, sono tutte di sesso gentile. Ma che diavolo sono venute a rompere da queste parti. Una che di gentile, almeno dal tono arrogante non mi sembra proprio, m’invita a controllare se fuori sono parcheggiate le scope facendomi anche notare che questo è il primo giovedì del mese. Molto spiritosa e su questo terreno mi trovo più a mio agio: se vogliono farmi credere d’essere quello che è improbabile che siano, devono fare i conti con la mia profonda cultura su vicende del genere.
Vecchie, brutte e cattive. A parte l’ultimo aggettivo che non sono ancora in grado di giudicare, per gli altri due dovrete aspettare ancora qualche annetto per essere iscritte con pieno diritto nell’albo professionale. Pur godendo di una certa protezione dinastica, secondo quella che sembra la capo-branco, non sono del tutto immune da spiacevoli conseguenze se non smetto di fare il gradasso. Che diavolo, proprio ora che incomincio a divertirmi sul serio. Certo che so anche che anch’io ho il mio tallone d’achille, solo che questo si trova un pochino più in alto, esattamente dieci centimetri sotto l’ombellico.
La seconda sulla mia sinistra, ora che posso guardare in giro senza timore, mi ricorda qualcosa, quel qualcosa di famigliare di una persona conosciuta in un’altra occasione. Non tanto per i lineamenti del volto, ma per il seno. Certamente non per la forma e il volume, soggetto com’è alle periodiche variazioni, bensì dal rapporto individuale che ogni donna ha con questa parte anatomica. Per certe è un castigo divino, e sono quelle che piegano le spalle in avanti tentando di nascondere un’improbabile vergogna, esattamente il contrario di quelle che gonfiano i polmoni per esaltare un miracolo di madre natura. Nel mezzo c’è di tutto: dio me le ha date guai a chi me le tocca, latteria prossimamente aprasi, pregiata merce di scambio, mantenere la debita distanza, non toccare la merce in esposizione e tante possibili combinazioni tra questi rapporti con la ghiandola più grande del corpo. Rosanna, ora sono quasi convinto che sia lei, è fuori da tutte queste categorie, per lei il seno è li e basta, come la milza, servirà pure a qualcosa, ma nessuno si chiede, giorno dopo giorno, che cosa sta combinando. Non so spiegarmelo, ma ho la netta sensazione di un’inspiegabile ostilità nei miei confronti che si percepisco dalle sue labbra serrate e da uno sguardo freddo e penetrante.
Se ben ricordo un altro sentimento, non dico di gratitudine ma almeno di riconoscenza, dovrebbe avere verso di me: in fondo ero stato io il primo nella sua vita, certo con reciproco vantaggio, a prendermi cura delle sue prime tempeste ormonali nella fase iniziale della sua adolescenza. Che si ricordi ancora dell’insolito incidente che ci capitò in una splendida domenica di fine settembre? In fondo eravamo tutti e due di primo pelo con la stessa smania di scoprire un mondo proibito. C’incontravamo, tempo permettendo, la domenica pomeriggio in una delle macchie silvestri che circondavano il borgo. Arrivati per vie diverse per non dare nell’occhio e seminato regolarmente il fratellino sguinzagliato dalla madre con crudele perfidia, si arrivava dove l’offerta della natura era grandiosa: un morbido materasso di muschio del sottobosco con il suo aroma particolare, un letto frusciante di foglie secche di faggio o un tappeto di soffice erba sotto un nocciolo. Solo le formiche, più spesso che raro, riuscivano a rompere l’atmosfera romantica costringendoci a fughe precipitose, ma erano inconvenienti gia messi in conto. Ben più serio era il conflitto, più suo che mio, fra la purezza che schiere di teologi cattolici dopo secoli di studio l’avevano posta nell’imene o nei paraggi, con l’istinto ancestrale che permette la conservazione della specie. Alla fine era sempre la sua morale ad averla vinta, e quale sarebbe ora la mia colpa? Quella d’averla indotta in tentazione o quella di non essere riuscito a completare l’opera?.
C’era stato un episodio che, con il distacco del tempo, si poteva classificarlo come buffo, dove la malasorte ci aveva diversamente colpiti: nella solita lotta greco-romana, senza rendercene conto c’eravamo spostati di qualche metro finendo sopra un vespaio interrato dove le legittime proprietarie non gradivano gli intrusi. Due punture a lei su braccio e una coscia ed una a me, ma valutando i danni delle parti colpite mi sentivo perlomeno in pareggio. Che fosse arrabbiata ancor più delle vespe potevo capirlo, ma che fossi io la colpa di tutto mi sembrava esagerato. Neanche una rinfrescata delle parte colpite con l’acqua fresca di un ruscello vicino, secondo la nostra classica medicina locale, riusciva a calmarla e alla mia convinta sentenza che tanto la carne di culo non va in paradiso, rispose piccata, con una insospettabile conoscenza del toscano, che neanche quella di bischero ha sorte migliore.
Finiva, senza troppi rimpianti, sopra un nido di vespe la bella avventura, tanto le prossime temperature in arrivo non avrebbero più permesso queste escursioni erotiche senza rischiare la polmonite. Tirando un bilancio, come autodidatti agli inizi della carriera, ce l’avevamo cavata abbastanza bene, non capisco ora il suo atteggiamento che è palesemente ostile, forse sta dentro i misteri del primo amore che non si scorda mai, ma anche che questo ricordo è evidentemente differenziato. |
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IN MALGA - IV |
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Ora, senza tante mediazioni diplomatiche, quella che certamente è l’autorità più alta del gruppo, mi comunica, non so con quale diritto, che è arrivata l’ora di togliere il disturbo come fossi io l’intruso e non viceversa. E se mi rifiutassi? Non credo che la pena sia quella di essere mutato in uno dei tanti esemplari della zoologia minuta. Forse, al contrario della famosa favola dove con un bacio il rospo viene tramutato in un principe, in questo caso è il principe che finirebbe in uno stagno. Sarei disposto anche rischiare, solo che il dazio da pagare mi pare troppo basso, se almeno si potesse alzare il prezzo e in più la scelta della prestigiatrice, l’affare è fattibile. Secondo una che finora non si era fatta sentire, invece di fare lo sbruffone, dovrei dare un’occhiata alla catena che scende dall’alto sopra il focolare, la quale dovrebbe ricordarmi qualcosa, e difatti ha ragione: mi ricorda una saga sentita molte volte che riguardava un mio antenato e fatta passare per un fatto realmente accaduto, ma che io l’avevo sempre presa con il beneficio d’inventario. La catena si è davvero allungata e non più attaccata al soffitto, ma si perde in un buco scuro che non si riesce a vedere la fine ed anche le pareti dello stanzone hanno perso la loro rigida forma rettangolare, sembra ora che si stiano stringendo perdendo gli angoli in un vortice lento ma inarrestabile. Non posso sapere di che genere di materia si tratta, sicuro quello che avanza è qualcosa che ha un suo peso specifico anche se la consistenza mi sembra quella di una nebbia color cioccolata.
Una forza sconosciuta mi sta trasportando dolcemente verso l’alto e alla quale mi sembra inutile opporre una qualsiasi forma di resistenza. È un risalire senza avere la percezione del tempo, come se questo non fosse influente in questo spazio irreale. Quello che più mi sorprende non è tanto l’incredibile situazione in cui mi trovo, ma la totale mancanza di qualsiasi timore come se il fatto non mi riguardasse personalmente. Succede spesso in montagna che una folata di vento spazzi via la nebbia che avvolge le cose ridando la luce al panorama, così mi si presenta ora un paesaggio alpino che in qualche modo conosco ma che non ho mai visitato. Vallate ampie e pendii più dolci di quelli delle nostre Alpi, case barocche di legno dai tetti a punta dove la pietra ha una funzione marginale e magicamente inserite nella natura, mi lasciano con il fiato sospeso per la loro perfetta armonia con il tutto. . Dietro di loro, salendo verso l’alto, il verde scuro dei boschi di conifere si perde sfumando in lontananza dando all’insieme la bellezza struggente di un paesaggio inventato. A fondovalle, sulla riva di un torrente, vedo un paese di poche case ed una chiesa con una cupola strana, ancora più giù, sempre lungo il torrente, un’enorme catasta di tronchi che fa apparire la segheria, lì a due passi, come un giocattolo posato per caso. Al centro di una radura nel boschetto sopra la segheria, sotto l’unico albero che è con certezza un susino, una semplice croce e la terra ancora smossa di fresco, lasciano intendere che lì riposa qualcuno. Non ci sono fiori o altri simboli funebri, neanche nome di chi è stato sepolto, solo qualche foglia e qualche frutto caduto dall’albero danno un’immagine meno triste alla tomba. Non so, ma penso che in fondo è meglio finire così: lontano dalla pietà vera o fasulla e dal liturgico culto dei morti.
Sento che il mio viaggio è giunto alla fine. Una nebbia che si fa sempre più fitta, mi sta gia avvolgendo e mi lascio andare sereno in un morbido mare di piume. |
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RISVEGLIO |
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Dopo il gran sonno, il primo contatto con la realtà che sta riprendendo il controllo dei miei pensieri, sono le tenue lame di luce che penetrano dalle piccole fessure delle pareti di legno. Dei fatti di questa notte, o della dimensione del sogno, mi è rimasto in bocca un dolce e tenue sapore di mele appassite e pensieri confusi di favole antiche con immagini vage e sospese in uno spazio senza fondale. Pian piano il quadro stà recuperando più forma e spessore ma resta ancora lontano e indecifrabile nella sua composizione mutante: o è l’epilogo conseguente di una tremenda bevuta, oppure è il dipartire discreto dell’uso della ragione. Legato alle strane vicende della notte c’è ancora qualcosa d’importante che non riesco a focalizzare: è come un richiamo lontano dove il messaggio arriva confuso senza lasciarsi afferrare. Madre de Dios….La neve.
Lo spettacolo, anche se rivisto con gli occhi incatati dei ricordi lontani, è imponente: il manto di neve alto oltre un metro ha livellato tutte le piccole asperità del terreno regalando al paesaggio quella plastica morbidità che è la versione più romantica dei paesaggi invernali. Giù, verso valle, con una perfetta illusione, ottica sembra che il bosco sia completamente sepolto sotto una spessa coltre bianca e solo pochi larici isolati, carichi e pazienti come sentinelle alpine emergono da un soffice mare di neve, rompendo appena l’uniformità dell’intenso candore.
Polenta e crauti con carne di maiale affumicata è la comunione più legittima con il dio delle nevi. Già il rito magico della preparazione mi da una gioia quasi mistica che non mi è nuova, questa volta però mi sembra di comprendere anche le origini misteriose di questi sentimenti religiosi. La presenza del fuoco nella sua forma più semplice ed originaria, non imprigionato dentro marchingegni metallici, amato e temuto nello stesso tempo, mi riporta indietro nel tempo fino ad una forma di vita che riproduce, anche se in modo molto nebuloso, l’identita degli avi. “ Dacci oggi il nostro pane quotidiano….” parole che dovevano suonare in modo strano nelle orecchie di chi non conosceva nella pratica quotidiana questo alimento sconosciuto e sostituito da secoli con la polenta, forse più prosaica, ma altrettanto importante come il fulcro su cui si basava tutta la liturgia dei rapporti famigliari. Mi è difficile immaginare una società pre-colombiana dove il mais era ancora sconosciuto se non come un evo più pagano che nel segno della croce.
Il profumo della polenta già quasi cotta si spande per la casera con una forza tentatrice che risveglierebbe anche la “bella addormentata” della favola famosa. A proposito di “belle” possibile che non abbiano lasciato neanche un piccolo indizio del loro passaggio? Stamattina quando sono sceso le braci del focolare erano ancora abbastanza calde, segno evidente che la sabba si è prolungata fino all’alba. Streghe o turiste? In ogni caso mezza bottiglia di grappa ha preso la strada del non ritorno lasciandomi con l’amletico dubbio del mezzo-pieno o del mezzo-vuoto. Rischiare ora una lunga fase depressiva per questa offerta involontaria, anche se sarebbe pienamente giustificata, non sarebbe consigliabile, meglio buttarla sul positivo e pensare che poteva andare anche peggio; in fondo non è altro che un piccolo obolo per una serata fuori del normale. |
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